«Oltre tutto», diario dalla missione in Ciad

«Oltre tutto», diario dalla missione in Ciad

Le suore francescane alcantarine missionarie hanno raccolto in un libro le loro lettere dal Ciad. Suor Marilda Sportelli: «Ho pregato tante volte sulla Parola del profeta Ezechiele: “Toglierò da voi il cuore di pietra e ne farò un cuore di carne”. Ogni volta non capivo cosa il Signore volesse togliermi. Finché non sono arrivata qui…»

 

«Incontri, sguardi, racconti, vite piene di speranza. Oltre tutto. L’hanno intitolato così le suore francescane alcantarine missionarie in Ciad; non un semplice libro ma una selezione di sprazzi di vita che raccontano di una società povera eppure ricca, di sogni, di amore e gratitudine. Questa raccolta di lettere di donne che hanno scelto di vivere la loro consacrazione da missionarie è stata presentata il 7 marzo a Bisceglie e oggi a Castellammare di Stabia. Il libro è stato curato da suor Marilda Sportelli, che ha raccolto lettere e pensieri dopo la sua esperienza in Ciad, conclusasi nel gennaio di due anni fa, in un libro ricco di speranza.
La prefazione è della biblista Rosanna Virgili, che dice: «Questa raccolta di lettere e testimonianze di suore francescane missionarie a Dobo, nel Ciad, è un ‘corso di vita’ e non semplicemente un testo da leggere per conoscere l’ambiente di una casa missionaria, le condizioni del Paese dove si trova o della gente che incontra. Non è soltanto un bel racconto, ma una parola profonda, toccante, penetrante, trasformante, proprio come quella dei profeti biblici. Le esperienze fatte da queste donne parlano incisivamente alla vita di tutti: poveri e ricchi, africani, italiani, francesi o americani. Paradossalmente dentro le pagine di cronaca di un mondo tanto remoto e altro, il lettore occidentale si troverà davanti a se stesso, al suo presente, alla sua vita reale, quella che, magari, ogni giorno scorre dietro una scrivania o nella serenità di chi conta soltanto nel suo conto in Banca».
Suor Marilda Sportelli spiega a Mondo e Missione i perché di questa iniziativa e della scelta missionaria: «Sono andata in Africa per seguire e portare a termine il progetto di una sala di informatica; non avevo mai sorvolato l’Oceano e avevo una concezione molto ristretta del mondo: la mia idea, fatta di certezze italiane; pensavo quasi che la mia cultura e le mie tradizioni fossero le uniche e non mi ero mai posta il problema di andare oltre. In Ciad invece ho scoperto una nuova mentalità che si è aperta al diverso, al lontano, ad un mondo nuovo. Da qui è nata l’idea di raccogliere lettere e pensieri dell’esperienza missionaria mia e di altre sorelle che sono ancora in quella terra».
«Il Ciad è anche Ça va»
C’è tanta umanità che riesce ad andare avanti con dignità nelle lettere di suor Marilda, una fotografia di bambini, ragazzi, donne, operai, tutti alle prese con una vita non facile e con poche certezze. Si legge in uno dei primi racconti: «La prima cosa che mi ha colpito venendo qui in Ciad sono state le risposte ai saluti. Le numerose formule italiane come: va bene grazie, così così, potrebbe andar meglio, si uniscono in un’unica domanda e risposta, che grandi e piccoli ti rivolgono appena ti vedono, in qualunque ora del giorno: Ça va? Risposta: Ça va!. C’è uno scambio tacito di pensieri, emozioni, che passano attraverso queste due parole.
A dire il vero mi sto chiedendo cosa significhi davvero ‘Ça va’ qui in Ciad. Ça va! Anche per i tantissimi bambini e ragazzi fermi ai ‘dos d’âne’ (dossi) che t’infilano qualsiasi oggetto, da vendere ovviamente, dal finestrino della Jeep. Aspettano lì tutto il giorno sperando di portare a casa qualcosa e magari pregano che la tua macchina abbia un guasto, proprio dinanzi a loro, per poterti aiutare e così incrementare il guadagno. Ça va! Per le bellissime donne del mercato, credo siano le donne più affascinati del mondo. Sono sedute ore e ore con il loro piccolo ma prezioso bottino, anche quello da vendere, e dietro le spalle, o magari sotto il tavolino custodiscono i loro bambini, forse alcuni non voluti ma che portano con onore e una disarmante dignità. Ça va! Anche per gli operai dei pozzi di petrolio che lavorano a Komè, un piccolo villaggio a 20 km da Doba. Uomini che grazie a Dio lavorano. A guardarli sembrano molto professionali, indossano delle tute gialle e molti di loro guidano giganteschi autotreni carichi all’inverosimile. Trasporti eccezionali, si direbbe in Italia, ma che qui di eccezionale non hanno nulla perché le strade sono state costruite solo per loro. Quando escono dai cancelli cambiano volto, si sdraiano sotto gli alberi un po’ morenti a causa dell’inquinamento e così ritornano ad essere veri uomini ciadiani. Anche loro ti rispondono con un bel ‘Ça va’, dopo che dalle loro mani è scivolato il famoso oro nero che vedono venir fuori dalla terra rossa ma non sanno dove andrà a finire.
Sto cercando di capire cosa significhi davvero vivere qui, e credo sia proprio vero quello che si vede in tv, nei servizi sulla povertà in Africa. Qui convivono degli assurdi, una convivenza talmente pacifica che nessuno la vede più. Il Ciad è povero? Sì, lo è. Non c’è dubbio, ma il Ciad è anche Ça va! È la forza motrice di questi uomini e di queste donne che portano con dignità una storia assurda, non giusta, ma che vogliono viverla tutta».
Cuori Ribelli
La vita missionaria e l’evangelizzazione per Suor Marilda e le altre sorelle francescane alcantarine passano anche attraverso il sostegno ai carcerati; Oltre Tutto! propone un flash di vita in Ciad di chi ha sbagliato, con il racconto Cuori Ribelli. Ecco uno stralcio di quanto si può leggere nel testo:
«Questa mattina non ho preso in braccio nessun neonato e non ho accarezzato nessun ragazzo eppure come non mai mi sono sentita madre visitando il carcere di Doba. Una struttura nuova di appena un anno di vita. Gli spazi per i detenuti sono molto grandi e pieni di aria e luce. Mentre entravo non ho provato alcuna sensazione di chiusura e di ristrettezza. Nessun controllo, solo due guardie all’entrata ovviamente sdraiate sotto un albero, uno di loro aveva il fucile poggiato per terra che gli faceva da cuscino. Mi sono detta: “Ma qui è tutto aperto?”. La porta spalancata, sulle torrette nessun controllo, al secondo ingresso già ci aspettavano dei ragazzi felici di vederci. Non mi sembrava di entrare in carcere, ma in casa di qualcuno. Abbiamo attraversato un cortile dove subito si distinguevano i detenuti di religione islamica, protestante e cattolica. Chissà perché gli islamici sono sempre per terra sdraiati, qualunque cosa loro facciano sono lì per terra. I protestanti ben vestiti e con l’aria professionale mentre i cattolici con i rosari al collo e le medagliette simbolo del battesimo ricevuto. Tutti ci hanno visto sfilare e tutti ci salutavano come ospiti graditi. Devo dire una bella accoglienza.
Siamo entrati in un altro cortile dove erano già riuniti un centinaio di detenuti intenti ad ascoltare un pastore protestante che aveva iniziato la sua predicazione un po’ prima, ma come se nulla fosse e soprattutto come se tutto fosse normale il pastore si è interrotto e ci ha invitato a prendere la parola per poter fare anche noi il nostro annuncio. Dopo pochi minuti anche la nostra predicazione si è conclusa e con fare silenzioso e rispettoso ci siamo recate alla porta d’uscita. Solo in quel momento ci siamo rese conto di essere seguite da una cinquantina di ragazzi che avevano abbandonato il pastore protestante e che cercavano ancora qualcosa. “Ma che vogliono?”, ci siamo chieste io e la mia consorella che da qualche tempo presta il suo servizio in carcere. Beh, non so spiegarvi bene, all’improvviso ci hanno bloccato, erano tanti e molto alti, almeno io non vedevo più la porta d’uscita, ma la loro non era un’aggressione, anzi, camminavano piano e nessuno osava sfiorarci. Forti emozioni in quegli attimi di silenzio e imbarazzo.
Siamo arrivate dinanzi al muro e con le spalle al Crocefisso abbiamo capito: i ragazzi volevano ascoltare ancora la Parola di Dio. Non erano stati sufficienti per loro quei dieci minuti, volevano di più. Avevo i brividi mentre la mia consorella spiegava loro la successione delle quattro domeniche d’Avvento e quale Parola di Dio accompagna questo cammino. Avevo i brividi perché i loro occhi erano fissi su di lei e sulle sue parole, erano in cinquanta fermi, immobili come bambini che vogliono essere accarezzati, curati, guariti, perdonati dalla mamma. Come bambini che per divertirsi un po’ avevano osato trasgredire un comando dei genitori e che per punizione erano chiusi in casa per qualche giorno».
«Pregare con le pietre»
Nella terra di chi non ha niente, c’è una ricchezza inestimabile: la gioia, il valore dell’accoglienza e della condivisione. Un altro passaggio del libro, dal titolo ‘Pregare con le pietre’, si sofferma proprio su questo aspetto.
«Ho la sensazione che qui tutti abbiano raggiunto una certezza; animali, piante, uomini, donne, bambini, tutti sanno che la vita è un dono. Tante volte anche noi, europei e cattolici di razza, lo diciamo e soprattutto noi religiosi lo predichiamo spesso con le più svariate tecniche, ma qui la cosa è diversa. Che la vita sia un dono te ne accorgi subito, perché nonostante quello che c’è, e vi assicuro è molto poco, la gente ride. Anche quando non c’è nulla da ridere. Si ride per strada, si ride quando ci s’incontra, si sorride anche quando non ci si conosce. Una gioia segno di qualcosa di più profondo. La loro gioia poi esplode durante la preghiera. Non sono i canti, i balli, i tamburi che mi hanno stupito ma è il loro stare davanti a Dio che mi lascia senza parole.
La prima cosa molto diversa da noi è che tutti hanno un posto, nessuno rimane in piedi. Anche se si arriva in ritardo in Chiesa ci si deve sedere. La cosa bellissima è che, contrariamente a noi, il ritardatario non deve trovarsi la sistemazione ma è la stessa gente che gli fa spazio. Ti senti straordinariamente accolto e tutti preferiscono stare seduti strettissimi piuttosto che lasciare una persona in piedi. Un’altra cosa spettacolare è che l’assemblea tiene il ritmo della preghiera, tutti sono coinvolti perché tutti ci sono. Non sono presenti solo per abitudine, sono lì con le loro vite, con le loro povertà, questo è un popolo che davanti a Dio c’è sul serio, forse perché non ha altro.
Ieri ho pregato il Rosario con alcune delle nostre ragazze del Foyer, mi sono avvicinata a preghiera già iniziata e sono rimasta sorpresa dal fatto che molte di loro pregavano tenendo tra le mani delle pietre, dieci piccole pietre. E mentre scorrevano l’Ave Maria, questi sassolini passavano da una mano all’altra, molto delicatamente, per tenere la conta del Rosario.
Non so perché ma questo semplice gesto non mi lascia in pace. Questo tenere in mano pietre e farne preghiera. Quante volte ho pregato su questa Parola di Dio: “Toglierò da voi il cuore di pietra e ne farò un cuore di carne” (Ez 37) e ogni volta non capivo cosa il Signore volesse togliermi. Queste pietre che qui diventano preghiera mi hanno fatto guardare in faccia la mia incapacità di comprendere Dio. Questo popolo africano che prega così Dio mi sta facendo comprendere che Lui non vuole che io tolga da sola le pietre dal mio cuore, Lui desidera solo che io gliele offra. Il suo sogno per me e credo per ciascuno di noi è che gli idoli, i peccati, la poca fede, scorrano come sassolini tra le mani in preghiera davanti a Lui».