Sud Sudan: un popolo calpestato 

Sud Sudan: un popolo calpestato 

Migliaia di morti, milioni di profughi, una crisi umanitaria senza precedenti. A sei anni dall’indipendenza, il martirio del Sud Sudan, raccontato da un testimone diretto, padre Daniele Moschetti, comboniano

A poco più di sei anni dalla proclamazione della tanto agognata indipendenza, il Sud Sudan sta naufragando in una crisi politica, umanitaria e bellica come nel peggiore degli incubi. Non sono bastati quarant’anni di conflitto con il Nord liberticida per scongiurare l’ennesima caduta nell’abisso della guerra. Questa volta fratricida. I dinka del presidente Salva Kiir contro i nuer dell’ex vice Riek Machar, per semplificare al massimo un conflitto che, come sempre, nasconde interessi di potere e di ricchezza. E a farne le spese, ancora una volta, è la popolazione che non ha fatto a tempo a rialzarsi dal giogo dell’oppressione e della povertà, per ritrovarsi in una situazione per certi versi peggiore.

Da quando è scoppiato il conflitto civile nel dicembre del 2013, ci sono stati più di 50 mila morti (e forse molti di più), circa 2 milioni di profughi nei Paesi limitrofi e 2 milioni di sfollati interni, migliaia di donne stuprate, una catastrofe umanitaria che riguarda dai 4 ai 5 milioni di persone ridotte alla fame (in un Paese che ne conta circa 12-13 milioni) e una crisi economico-finanziaria, che ha svuotato le casse dello Stato. L’unica cosa che non manca oggi in Sud Sudan sono le armi.  Ma i numeri non bastano a descrivere il dramma di uno dei Paesi più martirizzati d’Africa. Padre Daniele Moschetti, che vi ha vissuto per sette anni – sei dei quali come provinciale dei comboniani – ce lo racconta dall’interno.

Padre Daniele, cosa sta succedendo in Sud Sudan?

«Nel corso di tutto il 2013 si è assistito a un braccio di ferro tra il presidente Salva Kiir e il suo vice, Riek Machar, con un’escalation di tensione che ha portato all’allontanamento di Machar dal governo e alla creazione di uno nuovo esecutivo con tutti gli uomini del Presidente. Anche all’interno del Sudan People’s Liberation Movement (Splm), c’è stata una drastica resa dei conti. La tensione era fortissima. E dopo il 15 dicembre quando tutto iniziò, i due gruppi, dinka e nuer, hanno cominciato ad affrontarsi nelle caserme della capitale la notte stessa dei primi assalti. Poi gli scontri sono andati avanti per quasi una settimana nella capitale Juba, dove ci sono stati massacri mirati di nuer. Il conflitto si è calmato a Juba ma si è esteso in particolare agli Stati di Unity e Jonglei, zone completamente nuer, e Upper Nile dove ci sono sia dinka, che nuer che shilluk».

Perché?

«Certamente c’è una questione etnica. Le divisioni tribali sono rimaste una caratteristica costante della società sud sudanese da molti decenni e per certi versi si sono accentuate dopo l’indipendenza, quando non c’è più stato un nemico comune esterno da combattere. Ma non spiegano tutto. La lotta per il potere, la corruzione, la pessima gestione della leadership militare, politica e delle risorse e la mancanza di diritti e libertà complicano enormemente il conflitto. Conflitto che è diventato particolarmente cruento soprattutto nelle regioni dove sono presenti i pozzi di petrolio sfruttati da compagnie di tutto il mondo: Malaysia, Usa, Francia, Canada, Cina… I ribelli hanno cercato di distruggerli per mettere in ginocchio il governo. Ma era una lotta impari dal punto di vista militare. L’esercito aveva comprato molte armi da Ucraina, Israele, Usa e altri ancora, spendendo un miliardo di dollari in un anno, in un Paese che è alla fame».

Oltre al petrolio fanno gola anche terra e acqua…

«Ancora prima che il Paese diventasse indipendente, il 9% della terra era già stata concessa a multinazionali e fondi sovrani sia per l’agricoltura che per le materie prime. Un vero e proprio fenomeno di land grabbing su vasta scala gestito da quella che avrebbe dovuto essere la leadership del Paese. Tutti i generali, in particolare, avevano come obiettivo la “spartizione della torta”. Hanno imposto un sistema corrotto e nepotista. Ha prevalso l’avidità dei leader, ma anche dei Paesi limitrofi e di quelli più lontani. Tutti hanno cercato di mettere le mani sul Sud Sudan che, dopo tanti anni di guerra, era un Paese completamente “vergine”, aperto a ogni forma di sfruttamento. Per non parlare della corruzione. Lo stesso Salva Kiir aveva denunciato che, tra il 2005 e il 2011, 74 persone si erano appropriate di 4,5 miliardi di dollari sugli 11 dati dai donatori».

Qual è la situazione oggi?

«Machar è in Sudafrica e gli è impedito di tornare anche se continua a operare in Sud Sudan con chi gli è rimasto fedele. La comunità internazionale ha speso più di 30 milioni di dollari per promuovere un dialogo in cui nessuno veramente credeva. Oggi si sono moltiplicati i gruppi ribelli, sarebbero stati reclutati almeno 17 mila bambini-soldato e moltissimi giovani presi a forza. La complessità del conflitto è ulteriormente aumentata. E la situazione economico-finanziaria del Paese è catastrofica; l’inflazione è all’850/900 per cento e le casse dello Stato sono vuote».

Quali sono gli scenari più critici?

«Continuano a essere quelli degli Stati di Unity, Jonglei e Upper Nile, dove molti pozzi petroliferi sono stati distrutti. Il governo sta cercando di far ripartire la produzione di greggio con l’aiuto di milizie private di multinazionali e anche dell’esercito regolare. Ma per la popolazione la situazione continua a essere tragica. Il governo rende difficile anche l’arrivo degli aiuti, perché sono considerati “nemici”. A Wau, almeno 12-13 mila persone continuano a trovare rifugio nel compound della curia e altri 50-70 mila in quello dell’Onu. A Yei e Torit c’è un’insicurezza enorme… Lo stesso nella regione del Western Equatoria, la zona più fertile, che potrebbe dar da mangiare a tutto il Paese».

E dal punto di vista umanitario?

«Le agenzie internazionali parlano di una delle crisi peggiori al mondo. In tutto il Paese ci sono dai 4 ai 5 milioni di persone a rischio- fame e non solo nelle zone di guerra, dove è stato distrutto tutto, ma in gran parte del Paese».

Una delle situazioni più drammatiche riguarda profughi e sfollati…

«Sono circa 2 milioni i profughi. Una fuga di massa. E il flusso continua. Quasi un milione di sud sudanesi si è riversato in Uganda. E un milione circa è scappato in Kenya, Etiopia, Sudan, Centrafrica, Repubblica Democratica del Congo… ma anche gli sfollati interni sono quasi 2 milioni e hanno dovuto lasciare case, campi, animali, molti perdendo anche la famiglia».

Si parla anche di migliaia di donne violentate…

«Le Nazioni Unite, Human Rights Watch e Amnesty International hanno pubblicato lo scorso luglio un report che conferma l’accanimento sulle donne e spesso anche sui bambini, soprattutto ad opera delle forze governative, ma anche di quelle di opposizione. Una denuncia pesantissima e documentata. Temo però che non verrà preso alcun provvedimento».

L’Onu, appunto, che cosa fa? La presenza della Missione in Sud Sudan (Unmiss) è controversa e spesso contestata…

«C’è stata un’escalation di discredito e mancanza di fiducia nei confronti delle Nazioni Unite, se non addirittura di ostilità. Bisogna dire che in molte occasioni e in molti contesti hanno fatto di tutto per non farsi apprezzare. Hanno fallito in almeno tre o quattro occasioni, quando ci sono stati attacchi contro i profughi, sia dinka che nuer. Hanno cambiato diverse volte il loro mandato… D’altro canto, però, pur con tutti i loro limiti, bisogna dire che le Nazioni Unite rappresentano l’ultimo baluardo contro lo sbando totale di un Paese sull’orlo del genocidio».

Che ruolo stanno svolgendo, invece, la Chiesa cattolica e le altre Chiese cristiane?

«La Chiesa cattolica locale ha molte fragilità, ma ha ancora molto da dire e gode di una grande credibilità tra la gente. È stata un punto di riferimento fondamentale nella lunga guerra con il Nord. E lo è ancora oggi. Negli ultimi tre anni si sono sviluppati anche un buon rapporto e una buona collaborazione a livello ecumenico. Quanto a noi missionari, siamo presenti ancora numerosi: circa 500 in rappresentanza di 46 congregazioni, 30 delle quali femminili. E proprio una missionaria slovacca, suor Veronica Rackova, è stata uccisa lo scorso maggio, fuori dall’ospedale dove operava come medico Rappresenta per noi il martirio del servizio».

Voi comboniani avete perso diverse missioni?

«La città di Malakal è stata presa e ripresa almeno 12 o 13 volte dall’inizio del conflitto. A Leer, in Unity State, c’erano nove missionari comboniani tra suore, padri e scolastici. Che sono dovuti fuggire in foresta. Non abbiamo avuto notizie per tre settimane. Oggi Leer è persa completamente: le due case, l’asilo, la chiesa, la scuola professionale e tanto altro sono stati occupati dai soldati o quasi annientati. Lo scorso gennaio, invece, abbiamo perso anche la missione di Lomin Kajo Keji. Era una delle meglio organizzate e non è rimasto nulla».

Dispiaciuti per l’annullamento della visita del Papa?

«Sarebbe stato un evento importantissimo soprattutto per la gente. Ma non c’erano le condizioni, innanzitutto di sicurezza. Era anche un momento di grande conflitto tra Onu e governo. E non si voleva che la visita venisse strumentalizzata in nessun modo. Speriamo possa essere rinviata al 2018. Il Papa, però, non ha dimenticato il Sud Sudan e recentemente ha voluto fare un gesto personale di sostegno a tre progetti umanitari del valore di 500 mila dollari legati alla Chiesa: uno in ambito sanitario, uno in quello educativo e un terzo in campo agricolo».

Lei si è molto impegnato per la realizzazione del Good Shepherd Peace & Trauma Healing Centre. Sta funzionando?

«Non è facile. Ma, finché possiamo, cerchiamo di portare avanti le varie attività: dai ritiri spirituali per religiosi e laici alle sessioni per la guarigione dei traumi sino ai corsi dedicati ai temi della giustizia, della pace e della riconciliazione. Il Centro rappresenta una visione per il presente e per il futuro del Paese, che non si è ancora risollevato dalle ferite di quarant’anni di guerra con il Nord e ora deve fare i conti con quelle ancora più profonde di questo conflitto civile. La gente comune chiede innanzitutto un po’ di sicurezza. Ed è proprio questa gente, con la sua straordinaria capacità di resistere e di reagire a questa ennesima situazione di crisi, che ci insegna la speranza in un Dio che non abbandona mai. Nonostante tutto».

 

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IL LIBRO E L’INCONTRO AL PIME DI MILANO

Padre Daniele Moschetti ha inaugurato il 4 ottobre 2017, il ciclo di conferenze dell’Ottobre missionario al Centro Pime di Milano, sul tema “Artigiani di nuova speranza“. Un’occasione preziosa per parlare del Sud Sudan e della sua lunga esperienza missionaria, ma anche per presentare il suo ultimo libro che è dedicato proprio a questo Paese: “Il lungo e sofferto cammino verso pace, giustizia e dignità” (ed. Dissensi). Il libro vede la preziosa presentazione di Papa Francesco e le prefazioni dei comboniani Tesfaye Tadesse (superiore generale), Alex Zanotelli, Giulio Albanese e del vescovo emerito di Makeni Giorgio Biguzzi, saveriano. Il ricavato andrà a sostenere progetti di solidarietà in Sud Sudan.