Survival Gap: l’ingiustizia alla nascita

Survival Gap: l’ingiustizia alla nascita

In Europa su dieci bambini nati prematuri se ne salvano nove. In Africa le proporzioni sono invertite: su dieci è solo uno a sopravvivere

 

Si chiama survival gap: muori o sopravvivi a seconda del Paese dove nasci, a parità di condizioni di salute. A fare la differenza sono le condizioni economiche e sociali. È purtroppo un dato da costatare nella giornata dedicata alle nascite premature, il World prematury day che ricorre oggi (clicca Qui per vedere i dati).

“Un bambino è prematuro se nasce prima della 37esima settimana” spiega Fabio Manenti, medico e responsabile dei progetti dell’ong Medici con l’Africa-Cuamm. “Qui in Europa dalla 30 alla 37esima settimana riusciamo a intervenire anche su casi complessi e arriviamo a salvare anche i molto prematuri, fino alla 22esima settimana. In Africa se un bambino nasce prima della 30esima settimana non ci si può provare nemmeno a salvarlo: la terapia necessaria richiederebbe una tecnologia di alto livello, personale altamente qualificato e costi elevati, non sarebbe gestibile in un contesto in via di sviluppo”.

In Africa i protocolli di intervento nel caso dei bambini prematuri sono diversi rispetto all’Occidente: “Ci si concentra sui bambini meno prematuri, dalla 30esima settimana in poi, che sono nati prima e hanno avuto una crescita intrauterina senza complicazioni. Con un bambino in queste condizioni si usa il “metodo canguro”: la mamma se lo tiene addosso tutto il tempo per riscaldarlo e per allattarlo. Si riescono così a evitare l’ipotermia e l’ipoglicemia, le due cause di morte intorno alla 33esima-34 esima settimana”.

E per chi nasce prima della 35esima settimana o con complicazioni respiratorie? “C’è poco da fare” dice Manenti. “Bisognerebbe intubarli e avere un respiratore. Ogni fiala per l’assistenza respiratoria costa tra le 700 e le 800 euro, in Paesi dove il reddito mensile pro-capite è di 20 euro”. E allora cosa si fa? “Li si lascia andare” è l’amara risposta del medico del Cuamm, che ha lavorato con il Cuamm per sei anni a Wolisso, in Etiopia e per sei anni in Uganda: “Il momento più duro è quando devi dare una risposta alla madre, dirle che deve andare a casa con il suo bambino e accompagnarlo alla morte. In Occidente siamo abituati ad avere risposte quasi per tutto: se un neonato ha un problema c’è un centro specialistico, un altro ospedale al quale puoi indirizzare la famiglia. La frustrazione peggiore è dire a una madre: non posso farci nulla”.

Le differenti opportunità cominciano con la nascita: questa è la prima dura realtà che ti trovi di fronte” afferma Manenti. “A parità di condizioni di salute vivi o muori a seconda del posto dove sei nato. Poi c’è la scuola, il livello di istruzione che ricevi, le opportunità lavorative, la possibilità di spostarsi”.

Ingiustizie che suscitano un senso di ribellione. “La reazione è questa” ammette Manenti. “Dopodiché uno deve imparare a conviverci, per continuare a lavorare e fare il più possibile per salvare gli altri, per agire là dove è possibile”.

In Etiopia a Wolisso nel 2011 il Cuamm ha attivato un reparto di neonatologia che offre assistenza gratuita e qualificata durante il parto. E’ l’unico nel distretto, serve un bacino di popolazione di 413mila persone. Nel reparto sono stati ricoverati e salvati oltre mille con problemi alla nascita. Oltre tremila parti sono stati assistiti nell’ospedale e altre cinquemila direttamente sul territorio attraverso la rete di dispensari e piccoli centri sanitari.