Ciad un lago di profughi

Ciad un lago di profughi

Circa 3 milioni di profughi e sfollati stanno affrontando una grave crisi umanitaria nel bacino del lago Ciad, che rischia di sparire nei prossimi quindici anni. Popoli in fuga da siccità e conflitti

 

È una terra di popoli originati dal mito e destinati all’infinito errare, quella attorno al lago Ciad. Un mare d’acqua dolce al limitare del deserto. Un prodigio della natura che sta morendo di secchezza. Attorno: morte, fame, disperazione e desolazione. E milioni di fantasmi che vagano silenziosi nelle distese di polvere bianca, in fuga dalla carestia e dalle guerre, dal terrorismo e da chi dovrebbe combatterlo.

Sono circa 30 milioni le persone che vivono attorno a questo lago che in cinquant’anni si è ridotto di un decimo e che secondo la Nasa è destinato a sparire nel giro di quindici anni. Un effetto del surriscaldamento globale, ma anche della mano dell’uomo, che stanno provocando un’ondata di migranti climatici forzati, di cui si fa ancora fatica a comprendere la portata e la gravità.

Eppure, l’allarme non è di oggi. Il Sahara sta avanzando a un ritmo di trenta miglia l’anno. E vaste zone limitrofe stanno conoscendo gravi crisi alimentari. Molti dei circa 200 milioni di rifugiati ambientali stimati da qui al 2050 potrebbero essere originari di questa regione. Ma il processo di desertificazione non è causa solo di migrazioni, ma anche di conflitti legati all’accesso all’acqua e al territorio e della penetrazione di gruppi estremisti come Boko Haram, che, a loro volta, provocano consistenti flussi migratori.

Attualmente sono circa 3 milioni i profughi e gli sfollati che cercano di sopravvivere nel bacino del lago Ciad: due terzi circa sono nigeriani. E sono quasi 4 milioni e mezzo le persone che rischiano di morire di fame. Una tragedia umanitaria insabbiata nel cuore arido e ferito dell’Africa.

Anche il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha lanciato lo scorso maggio un appello per la «fine immediata delle violenze» nel bacino del lago Ciad, dove secondo gli operatori si susseguono «atti che potrebbero essere definiti come crimini contro l’umanità e crimini di guerra».

È sempre stata una terra di popoli in movimento questa vasta regione al confine tra Ciad, Camerun, Nigeria e Niger: qui i mitici sao, fieri guerrieri e abili plasmatori di argilla, avevano messo fine al lungo peregrinare dalla valle del Nilo; qui, contrabbandieri e avventurieri di ogni specie hanno continuato a trafficare di tutto: persone, armi, droga, sigarette, medicinali contraffatti… In questa terra di mezzo oggi continuano a incontrarsi e scontrarsi popoli e interessi contrapposti, con l’aggravante del drammatico cambiamento climatico e del terrorismo islamista che assedia la zona da ogni dove: a ovest, i fondamentalisti nigeriani di Boko Haram, incuranti di qualsiasi frontiera; a est, gli estremisti somali di Al Shaabab; a nord quel che resta delle milizie alqaediste e i nuovi signori del male di Isis, più svariate bande tribali e criminali di mercenari e mercanti.

Il tutto in un contesto politico caratterizzato dalla più caotica delle democrazie africane come quella nigeriana e da tre Paesi pseudo-democratici come il Camerun di Paul Biya, al potere dal 1983, il Ciad del padre-padrone Idriss Deby che governa da 26 anni, e il Niger di Mahamadou Issoufou, imposto direttamente dalla Francia gelosa dell’esclusiva sull’uranio di Agadez.

In mezzo ci sono loro: profughi e sfollati, che in questo nulla desertico sono infinitamente di più di quelli che si affacciano sulle rive del Mediterraneo. E stanno molto peggio. «La situazione umanitaria è complessa e il contesto volatile – testimonia dal Ciad Federica Alberti di Medici senza Frontiere a Radio Vaticana -; e questo perché da più di un anno ci sono diversi rifugiati che lasciano il lago per ragioni anzitutto di sicurezza, ma anche su richiesta del governo che in quelle terre compie operazioni militari. I problemi che noi incontriamo sono relativi alla salute e all’accesso all’acqua; ma anche alla salute primaria, perché queste persone, a volte, hanno subito violenze».

La popolazione ciadiana oggi è vittima a vari livelli: del processo di desertificazione e della conseguente riduzione del bacino del lago, che ha costretto all’esodo molte famiglie di pescatori; dei terroristi di Boko Haram e delle loro incursioni lungo e oltre la frontiera; e del suo stesso governo, che per combattere i fondamentalisti ha intimato alle popolazioni di lasciare isole e rive del lago.

Qualunque sia la ragione per cui queste persone vivono lontano dalle loro case, la loro situazione è drammatica. Solo una parte, infatti, dei circa 475 mila profughi e sfollati presenti in tutto il Ciad è attualmente assistita dall’Alto commissariato Onu per i rifugiati. La situazione umanitaria è gravissima, con livelli estremamente alti di malnutrizione specialmente tra i bambini. E non solo tra quelli sfollati. Secondo l’Unicef, circa 2 milioni 200 mila bambini ciadiani sono affetti da malnutrizione. Problemi di accesso al cibo, all’acqua e alle medicine sono stati segnalati anche nel campo di Goz Amer, nel Ciad orientale, che ospita circa 35 mila profughi sudanesi. Mentre verso sud ci sono almeno 90 mila profughi provenienti dal Centrafrica. Più le migliaia di nigeriani in fuga da Boko Haram.

Ad aggravare la situazione si aggiungono le condizioni di sicurezza estremamente precarie. Dopo il pesantissimo attacco di Boko Haram subito nell’ottobre del 2015 dalla cittadina di Baga Sola – che ospita un campo di circa cinquemila profughi in gran parte nigeriani (denominato ottimisticamente Dar es Salaam, la “casa della pace”) – con una quarantina di morti e circa cinquanta feriti, le autorità ciadiane hanno imposto lo stato di emergenza nella regione del lago, accompagnato da pesanti operazioni militari. Operazioni che hanno costretto la gente del posto a lasciare i propri villaggi senza una reale alternativa e senza alcuna assistenza. Qualcuno fa balenare il sospetto, non troppo infondato, che fa comodo a molti mantenere quelle terre spopolate, anche perché è stata accertata la presenza di petrolio pure alla frontiera camerunese e l’obiettivo è di sfruttarlo il prima possibile, senza eventuali intralci o pretese delle popolazioni locali.

Lo conferma anche fratel Fabio Mussi, missionario del Pime e unico occidentale a frequentare le zone a rischio dell’Estremo Nord del Camerun, dove le frontiere con Ciad e Nigeria sono pericolosamente vicine e il lago segna il limite settentrionale del confine. «Sono appena tornato da una visita da quelle parti – racconta – e per fortuna tutto è andato bene. Ma sappiamo che gli eserciti dei quattro Paesi del bacino del lago Ciad, dopo l’ennesimo assalto a Bosso in Niger, si stanno mobilitando con migliaia di militari per una grande offensiva contro Boko Haram. Dicono che questa volta vogliono andare sino in fondo. Nei pressi del lago Ciad, dal lato camerunese, sono arrivati altri duemila militari. Questo rende difficili gli spostamenti anche dei miei collaboratori che continuano con grande fatica e determinazione a operare in quella zona».

Attualmente, nell’Estremo Nord del Camerun ci sono circa 57 mila profughi nigeriani concentrati nell’unico campo esistente a Minawao, gestito dall’Alto commissariato per i rifugiati. Molti altri sono sparsi nei villaggi. Per tutti c’è un grosso problema di accesso al cibo e soprattutto all’acqua. Nonché all’istruzione. In più ci sono almeno 81 mila sfollati camerunesi. E la situazione è sempre molto fluida. Nell’ultimo anno, Boko Haram ha compiuto in Camerun più di 200 attacchi, in gran parte kamikaze, provocando la morte di circa 500 persone.

Secondo Najat Rochdi, coordinatrice residente del sistema delle Nazioni Unite in Camerun, «il gruppo armato Boko Haram viene regolarmente ad attaccare villaggi, bruciando case e campi, il che spinge continuamente le popolazioni camerunesi a spostarsi all’interno del Paese, andando ad aggravare la vulnerabilità degli sfollati che esistono già».

«Con molta fatica – continua fratel Mussi – siamo riusciti a tenere aperta la scuola elementare sull’isola di Blaram nel lago Ciad. In quest’anno scolastico 2015-16, abbiamo avuto 158 alunni, di cui 38 sfollati camerunesi da altre località del lago. Nessun rifugiato può essere ammesso alle scuole del Camerun se non nel campo di Minawao. Nell’altra nostra scuola nella zona del lago, a Blangoua, con 389 alunni alle elementari, 45 alla materna e 122 al centro professionale, tutte le attività si sono svolte abbastanza regolarmente. Sempre nella zona di Kousseri, con 580 alunni delle elementari, 120 alla materna e 100 alle scuole superiori, non ci sono state interruzioni nei programmi. Quindi siamo riusciti a terminare l’anno scolastico, anche se il numero degli iscritti è diminuito del 10% a causa dell’insicurezza».

In Niger, la situazione è particolarmente tesa nella regione di Diffa, dove da circa un anno e mezzo si moltiplicano le incursioni dei terroristi di Boko Haram. L’ennesimo attacco, in giugno, nei pressi di Bosso, ha provocato la fuga di altre 50 mila persone. Attualmente sono circa 240 mila coloro che vivono lontani dalle proprie case: di questi, 80 mila sono profughi nigeriani. In questa regione, l’Alto commissariato per i rifugiati non riesce a operare per questioni di sicurezza dal febbraio del 2015. E anche qui la situazione umanitaria è disastrosa. La gente vive all’aperto, senza alcun tipo di assistenza.

In Nigeria, Boko Haram ha provocato dal Duemila circa 20 mila morti (6.644 morti solo nel 2014, il 77% dei quali civili, secondo il Global Terrorism Index) e 2,2 milioni di sfollati. Ma anche per quelli che vivono nei campi profughi, la situazione è tutt’altro che rosea. A fine giugno, Medici senza Frontiere ha denunciato un’«emergenza catastrofica» nel campo di Bama, nel Borno, dove nel giro di un mese circa duecento persone sono morte soprattutto per malnutrizione e dissenteria.

La Commissione del bacino del lago Ciad ha tenuto una riunione ad Abuja a inizio giugno con lo scopo di armonizzare le legislazioni per favorire il ritorno delle popolazioni sfollate. Ma le condizioni di sicurezza sono estremamente precarie e ben pochi tornano indietro. Molti, invece, soprattutto i giovani, cercano di andare avanti. Non per nulla nel 2015 i nigeriani sono stati la prima nazionalità tra i profughi sbarcati in Italia (21.886) e continuano a esserlo anche in questa prima metà del 2016 (quasi 6 mila al 31 maggio). Intanto, molti continuano a chiedersi increduli come mai scappano…