«In Africa le religioni possono diventare vie di pace»

«Le religioni in Africa possono diventare un prezioso strumento di riconciliazione». Ne è convinto padre Francesco Pierli, comboniano. In Kenya da oltre 40 anni è stato superiore generale del suo istituto e a Nairobi ha fondato l’«Institute for social ministry» che forma laici e preti africani ispirandosi alla dottrina sociale della Chiesa

 

Cos’ha da dire agli africani il Giubileo della misericordia?

La parola riconciliazione, perdono, è fondamentale qui in Africa. Tutto considerato siamo un continente con notevoli ferite che non si possono guarire o risanare solo appellandosi alla giustizia. Desmond Tutu, un grande africano ha detto che senza perdono non c’è futuro. L’apertura della porta santa in Africa è  un gesto simbolico grandissimo, sia perché è ulteriore segno di de-europeizzazione della Chiesa, sia perché può aiutare le nostre comunità africane a collegare di più la riconciliazione con la fede e considerarla, insieme alla solidarietà, una delle sue espressioni più caratteristiche.

Ancor più dopo i fatti di Parigi, la fede viene vista spesso più come ostacolo che come via per la pace…

In Africa sarebbe un grave errore di valutazione. Sappiamo che il mondo musulmano è attraversato da correnti fondamentaliste molto feroci. Con la caduta di Gheddafi questi fondamentalismi non più controllati si sono riversati nel sud dell’Africa, in Ciad, in Mali, nel Centrafrica. La crisi in Libia ha destabilizzato una parte notevole dell’Africa centrale con l’arrivo di estremisti ben armati e pronti ad uccidere pur di assicurarsi il potere. Non a caso in tutti e tre i Paesi che visiterà, il Papa incontrerà i leader delle diverse religioni. In questo gesto c’è la fiducia che le religioni possano allearsi correggendo ciò che è a servizio della violenza. Francesco viene a incoraggiare le chiese, i governi e la società civile, a mettere la religione a servizio della misericordia, non della violenza.

Il Kenya ha esperienze di dialogo da offrire?

Qualche esperienza positiva di collaborazione fra cristiani e mussulmani esiste. La fine del regime autoritario di Daniel Arap Moi  è avvenuta senza violenza grazie soprattutto alla collaborazione fra cattolici e musulmani, che insieme a protestanti e indu si riunirono in una auditorium di Nairobi, noto come Ufungamamo, per delineare insieme il futuro del Kenya. Fu un incontro passato alla storia come “Ufungamamo experience”. Credo che il Papa ci inviti a valorizzare esperienze di questo tipo.

Oltre al fondamentalismo, l’Africa deve ancora fare i conti con le divisioni etniche, basta vedere cosa sta accadendo in Burundi. Crede che il Papa ne parlerà?

Qui in Kenya ma anche in Uganda e Centrafrica abbiamo tensioni etniche molto forti. In tutte le tribù del Kenya i cristiani sono la maggioranza, eppure non si riesce a creare una solidarietà gioiosa, e in prossimità delle elezioni – le prossime saranno fra due anni – i conflitti tribali esplodono, usati dai politici per affermare i propri partiti e per assicurarsi i voti. La fede in Cristo, che è fortissima qui, e le grandi celebrazioni liturgiche devono andare di pari passo con l’accoglienza dell’altro e del diverso. C’è bisogno di legare – e il Papa lo farà certamente –  l’aspetto religioso e quello sociale. In fondo le religioni tradizionali africane erano molto incentrate sul rito: accontenti Dio facendo un rito perfetto, usando le parole esatte, nel tempo e nel luogo esatto. La perfezione del rito voleva dire perfezione del rapporto con Dio, invece la novità di Cristo è che la perfezione non sta nel rito ma nella relazione, sia con il Signore che tra di noi. Anche il grande movimento profetico aveva detto che la religione incentrata sul rito, il tempio, senza l’amore per il povero, la vedova e l’orfano era obbrobrio agli occhi di Dio. Di questo abbiamo moltissimo bisogno in Africa. E probabilmente il Papa, anche nel contesto del Giubileo della misericordia, ci aiuterà a crescere in questo.