Kenya anima verde

Kenya anima verde

È stata soprannominata la “Erin Brockovich dell’Africa orientale” per le sue battaglie ambientaliste. Più volte arrestata dalle autorità, Phyllis Omido è stata insignita del Goldman Environmental Prize

 

Uno sguardo dolce e una risata contagiosa. Sono due delle più evidenti caratteristiche di Phyllis Omido, coraggiosa attivista ambientale keniana che nel 2015 ha vinto il Goldman Environmental Prize, uno tra i più rinomati premi internazionali per la difesa dell’ambiente. La battaglia, però, è appena iniziata. «Ci occupiamo di ambiente e diritti socioeconomici – spiega Phyllis, 39 anni, nell’ufficio del suo Centro per giustizia, autorità e azione ambientale (Cjgea), situato a Kilifi, sulla costa del Kenya -. Lavoriamo con le comunità più povere di tutto il Paese, molte delle quali hanno sofferto a causa delle società estrattive legate soprattutto a miniere e raffinerie. In Kenya, come in gran parte dell’Africa – continua l’attivista – molte delle industrie sanno che le autorità non hanno un meccanismo valido per il controllo dell’inquinamento. Per questo le compagnie straniere possono cavarsela inquinando il terreno e non spendendo un solo centesimo per i danni che provocano».

Cjgea è nato nel 2009 proprio con l’obiettivo di responsabilizzare lo Stato verso il rispetto della natura e delle comunità più povere. «È una battaglia, che a volte diventa una guerra, e che poi torna a essere una battaglia – racconta con un gran sorriso Phyllis -. Sono situazioni molto difficili perché ogni volta che i profitti di queste aziende vengono messi a rischio, scatta una loro resistenza contro qualsiasi cosa uno provi a fare».

Sono, infatti, continui gli attacchi contro gli attivisti, gran parte dei quali usufruiscono degli aiuti di Cjgea in termini economici e logistici, soprattutto quando si tratta di nascondersi dalle minacce delle multinazionali o dello stesso governo. «L’anno scorso uno dei nostri membri è stato arrestato e accusato di aver minacciato una delle aziende minerarie che volevano espropriarlo della sua terra – dice Phyllis, anche lei più volte arrestata durante le manifestazioni a cui partecipa da anni -. Era stato rilasciato dalla prigione solo l’anno prima, dopo essere stato condannato per simili accuse sempre inventate».

La fama per Cjgea e Phyllis è iniziata con la lotta contro una società situata in una baraccopoli della città portuale di Mombasa. Per anni, gli abitanti della zona, tra cui la stessa Phyllis, hanno respirato i fumi prodotti dalle vecchie batterie delle auto che venivano incenerite. È così che i livelli di piombo nel sangue di molti residenti aumentarono radicalmente.

L’attivista keniana, arrivata a Mombasa dopo aver studiato gestione aziendale all’Università di Nairobi, era una giovane madre e si è accorta di aver passato il veleno a suo figlio attraverso l’allattamento. «Ora lui sta bene – racconta Phillis, la quale preferisce non parlare troppo della sua vita privata -. Ci sono, però, voluti molti mesi e un primo morto per convincere il resto degli abitanti a combattere per far chiudere un’azienda che sapeva di avvelenarci».

In seguito alla chiusura, Phyllis si è guadagnata l’appellativo di “Erin Brockovich dell’Africa orientale”. Per questo e per molte altre sue proteste, l’attivista ambientale è controllata dal governo che invece dovrebbe aiutare lei e la popolazione a difendere le preziose risorse naturali del Paese. «Le autorità keniane e le agenzie statali incaricate di far rispettare la legge scendono a compromessi con qualsiasi compagnia in cambio di qualche soldo – continua Phyllis -. Così il nostro Centro interviene, inizia a fare domande e richiede che i diritti legati alle procedure ambientali siano rispettati».

Tali procedure sono poche e semplici per Cjgea: quando un’industria si installa nel Paese ci deve essere prima una partecipazione pubblica per capire come gestire il lavoro e assicurarsi che i diritti della gente siano ascoltati e protetti; ci devono essere libero accesso alle informazioni, soprattutto riguardanti le sostanze che vengono rilasciate nell’ambiente; e, per ultimo, rispetto del diritto.

Ad esempio, grazie al lavoro di Phyllis e dei suoi compagni, è recentemente passata una legge per l’intera Comunità dell’Africa orientale contro la fusione del piombo. Quello rilasciato nell’ambiente dall’azienda di Mombasa ha continuato a uccidere molte persone sino al 2015. L’ultimo decesso è stato quello di una madre morta mentre partoriva: l’autopsia ha confermato che la circolazione era ormai troppo appesantita e l’intestino non riusciva a ricevere sangue.

Come si preannuncia quindi il futuro per la protezione dell’ambiente in Kenya? «A volte sembra cupo, altre volte sembra promettente, stiamo facendo piccoli passi senza arrenderci mai – dice Phyllis dopo qualche secondo di riflessione -. Sappiamo che non è mai facile, non iniziamo le nostre battaglie con ingenuità, facciamo un lavoro molto rischioso dove combattiamo contro chi è capace di spararti per farti stare zitto. Ma se stiamo zitti ora – conclude – che cosa lasceremo alle generazioni future?».