La «poverella» degli spazzini

La «poverella» degli spazzini

Ha vissuto tra gli zabbalin delle periferie egiziane. Ha aperto scuole e dispensari, offrendo a tanti bambini una possibilità di riscatto. E a novantacinque anni è più che mai convinta della sua missione: testimoniare con la vita l’amore di Cristo

 

Nonostante gli anni e gli acciacchi, la sua immagine sorridente e serena – quella serenità che solo una vita spesa per il bene può dare – ha invaso gli schermi televisivi disseminati di piazza Duomo a Milano durante la cerimonia conclusiva del meeting settembrino della Comunità di Sant’Egidio «Uomini e religioni», dove era stata chiamata a dare la sua testimonianza. Due mesi dopo, in novembre, lo stesso sorriso l’ha sfoderato davanti alla giuria del premio «Bambini della terra», attribuitole in Svizzera per il suo impegno in favore dell’infanzia abbandonata. Un riconoscimento conferito negli anni passati ad altri giganti della carità e dell’impegno per la pace: l’abbé Pierre, il Dalai Lama, Edmond Kaiser (il fondatore di Terre des hommes) e Madre Teresa di Calcutta.

Quando chiedi a suor Emmanuelle, al secolo Madeleine Cinquin, di raccontarti la sua esperienza umana e cristiana, il volto raggrinzito dalle novantacinque primavere e dalle fatiche missionarie si illumina. E le sue parole lasciano trasparire un candore e una semplicità disarmanti.

«Vuol sapere della mia vita?», dice agitando le mani nodose. «Ho sempre desiderato vivere radicalmente il Vangelo e servire Cristo povero nei poveri. Ho sempre avuto come modello san Francesco di Assisi, che ha vissuto in povertà e letizia. Vede, per molti anni della mia vita ho fatto l’insegnante. Per quanto si viva in semplicità, noi suore siamo in convento, nutrite e vestite. A me non è mai bastato: volevo davvero condividere la vita dei più poveri sulla terra. Così, quando nel 1971 la mia congregazione ha affidato il collegio Notre Dame de Sion alle suore locali, mi sono sentita libera di seguire il mio ideale. Avevo 62 anni e avrei potuto andare in pensione. Ma ho ottenuto dalle mie superiore di potermi stabilire in una bidonville egiziana per condividere la vita dei più poveri: mangiare come loro, alloggiare come loro in una capanna molto povera, essere come loro nella povertà radicale».

Suor Emmanuelle, lei ha trascorso dodici anni a Ezbet el-Nakhl, nella zona di Suez. E poi è stata forse la prima missionaria ad occuparsi dei raccoglitori d’immondizia, gli zabbalin, dell’immensa periferia del Cairo…

Quando sono arrivata là in mezzo a loro, all’inizio degli anni Ottanta, sulla collina di Mukattam si diceva che fossero tutti banditi, ladri, fumatori di hashish, spacciatori di droga e assassini. Anche la polizia non metteva piede in quel quartiere. Quando l’ho visitato la prima volta, salendo a piedi per le strade fangose, ho visto solo tanti bambini miserabili. In quel mondo di baracche non c’erano né scuole né dispensari. Non c’era niente di niente. Quei bambini vivevano per strada, poverissimi. Mi sono detta che avrei cercato di cambiare la loro vita. Ho ottenuto dalle mie superiore il permesso di avere una piccola capanna e ho vissuto lì per cinque anni. Durante i primi tempi ho cercato di capire lo stile di vita di quella gente e i loro bisogni. A quell’epoca le ragazzine erano date in spose a 11-12 anni ad un uomo qualunque, basta che portasse una dote. Avevano figli più o meno ogni dieci mesi e all’incirca una dozzina di gravidanze nell’arco della vita, perdendo però più della metà dei loro figli. Era una situazione spaventosa. Allora ho cominciato a fare un piccolo asilo per musulmani e cristiani, che nella bidonville non si parlavano e non si incontravano. Io ho cercato di ristabilire l’armonia. Nella mia scuoletta, di primo pomeriggio, le ragazze venivano a fare un po’ di cucito e di alfabetizzazione. Poi era la volta dei ragazzi e di sera toccava gli uomini. Non avevo soldi, ma il mio lavoro non costava nulla, perché mi trovavo là in mezzo a loro. Poi ho dovuto affrontare la questione di un minimo di assistenza sanitaria. E in quel caso non avere né soldi né medicine ha cominciato ad essere un problema. La Provvidenza ha messo sulla mia strada un medico molto bravo che è venuto come volontario portando lui stesso le medicine per curare i malati. E ancora una consorella egiziana, suor Sarah, che ha scelto di vivere con me ed è stata capace di formare un’équipe. Piano piano il nostro lavoro ha cominciato a dare frutti.

Insieme ai risultati è arrivata anche la notorietà fuori dall’Egitto. E gli aiuti da tanti benefattori sparsi in tutto il mondo…

Certo, gli aiuti. Ma anche l’entusiasmo e l’impegno di tanti giovani volontari da diversi Paesi: Francia, Belgio, Italia, Germania, Inghilterra. Con il nostro lavoro, i fondi raccolti all’estero e il coinvolgimento degli zabbalin, abbiamo trasformato la bidonville. Ora le ragazzine non vengono più date in spose a 12 anni; vanno a scuola dall’età di 6 anni. Abbiamo creato un liceo per ragazze e ce ne sono alcune che frequentano con profitto l’università. Possono crescere come donne libere, scegliersi il lavoro che desiderano e sposare liberamente l’uomo che amano. Al Mukattam c’è un bell’ospedale che funziona 24 ore su 24 e due scuole, di cui una professionale. Per le donne che non sono andate a scuola è stato avviato un progetto di alfabetizzazione e lezioni di igiene, cucito, cucina… Per i ragazzi abbiamo aperto una fabbrica che tratta i rifiuti trasformandoli in compost e terriccio. Abbiamo acquistato in un luogo di villeggiatura un grande terreno su cui abbiamo costruito una grande casa e durante l’estate, per tre mesi, mandiamo migliaia di zabbalin a fare una settimana di vacanza, con i bambini che fanno il bagno e giocano con la sabbia. Una cosa straordinaria per chi è abituato a vivere in mezzo alla spazzatura. Abbiamo anche costruito una chiesa perché non ce n’erano e offerto un contributo per la realizzazione di una moschea. Anche i musulmani hanno il diritto di pregare.

La maggioranza degli zabbalin è copto-ortodossa. Ci sarà stato chi ha pensato che li volesse fare cattolici….

Durante i primi tempi della mia permanenza al Mukattam, il patriarcato copto-ortodosso ha cercato di mettermi i bastoni tra le ruote. Mi avevano chiesto di andarmene, ma ho detto che non mi sarei mossa. Ho molto rispetto per le altre confessioni religiose e ho sempre cercato di aiutare i copti-ortodossi. Quando ho avuto occasione d’incontrare il papa Shenouda, gli ho chiesto di mandare un prete per i raccoglitori d’immondizia. Sulla collina non c’era mai stato un sacerdote, erano pecorelle smarrite. Ora con Shenouda non ci sono più fraintendimenti, e quando lo vado a trovare parliamo anche per ore. Gli chiedo sempre di fare il possibile per avvicinarsi a Roma, perché è l’unità la nostra forza. Anche i musulmani all’inizio erano diffidenti, ma hanno visto che ho sempre insegnato il rispetto. Nelle scuole abbiamo corsi di religione sia per cristiani sia per musulmani. Non ho fatto proseliti per la Chiesa cattolica, ma oggi gli ortodossi e i musulmani del quartiere sono in buone relazioni.

Lei ora risiede in Francia e altri proseguono la sua opera. Quale eredità crede di avere lasciato?

Eredità? Io? Non avrei mai pensato di fondare opere o strutture. Volevo vivere povera, cercando di testimoniare Cristo con la vita, amando tutti nello stesso modo e rispondendo ai bisogni delle persone che Dio metteva sulla mia strada. Ora che l’età mi fa vivere nella prospettiva dell’incontro con il mio sposo, e le forze fisiche si affievoliscono, non mi resta altro che cercare d’irradiare amore. Non smetto di ringraziare il Signore per la mia vecchiaia. Oggi, ancora di più che in passato, posso essere pienamente sorella di tutti coloro che incontro ogni giorno, siano gli spazzini del Cairo o gli uomini e le donne della nostra Europa. Devo soltanto ascoltare, ora che la mie mani avvizzite non sono più capaci di fare altro, e augurare bene. Ecco, questa è la mia missione adesso, dopo aver camminato per le strade del mondo: aspirare l’amore dal cuore di Dio, respirarlo dentro di me e poi diffonderlo intorno, come una luce che non si spegne e illumina la notte.

 

(ha collaborato Anna Pozzi)

 

 

Chi è

Madeleine di Sion

 

Gli zabbalin delle bidonville del Cairo la chiamano abilati, «monaca mia». Il suo nome è Madeleine Cinquin, suora della Congregazione di Nostra Signora di Sion, l’istituto fondato nel 1843 da padre Thèdore Ratisbonne. Emmanuelle (il nome religioso è scelto a vent’anni, quando prende il velo), nasce il 16 novembre 1908 a Bruxelles (Belgio), da madre belga e padre francese. Dopo quarant’anni d’insegnamento in diversi Paesi del Medio Oriente, negli anni Settanta inizia a vivere tra i baraccati egiziani di Ezbet el-Nakhl e nel 1982, a settantaquattro anni, si trasferisce nella periferia del Cairo, al Mukattam, il quartiere dei raccoglitori d’immondizia che domina la Città dei morti. Qui la mortalità infantile è enorme, i bambini muoiono a causa del tetano, delle infezioni, delle condizioni igieniche inesistenti. Già all’inizio degli anni Ottanta la carità di suor Emmanuelle si apre anche ad altri Paesi del Sud del mondo: fonda l’Asmae (Aiuto socio-sanitario per l’infanzia), un’associazione che oggi assiste 600 mila bambini in Egitto, Sudan, Burkina Faso, India, Filippine, Madagascar. Notissima in Francia, dove la sua popolarità è seconda solo a quella dell’abbé Pierre, tra gli altri riconoscimenti ha ricevuto la Legion d’onore.