La sporca guerra dei «minerali insanguinati»

La sporca guerra dei «minerali insanguinati»

Oro, coltan, cassiterite e tutte le altre ricchezze minerarie continuano ad alimentare il conflitto e ad arricchire tutti tranne la popolazione congolese

DA BUKAVU (R.D.Congo)

Il ministro delle miniere del Sud Kivu, la signora Colette Mikila Embenako, fa scorrere i dati dell’export di minerali dei primi sei mesi del 2009. Cassiterite, oro, wolframite, e soprattutto coltan, di cui il Congo possiede l’80 per cento delle riserve mondiali. C’è un netto calo nel mese di giugno, spiegabile, dice il ministro, «con il perdurare dell’instabilità a causa dell’operazione militare Kimya». Ma quel che più sorprende sono i «buchi» sparsi qua e là nel modulo: zero esportazioni. Come si spiega? «Con la frode e il contrabbando!», reagisce prontamente la ministra.

Un esempio per tutti è il contrabbando di oro. Per stessa ammissione di un rappresentante governativo, nel 2008, sono stati estratti circa 5.000 chili di oro, venduti quasi tutti sottobanco; solo 123 chili sono stati esportati regolarmente.
È sotto gli occhi di tutti: quello del traffico illegale di materie prime è una delle poche certezze e dei più grandi scandali di questa terra. Da anni, in Kivu (e non solo), è in corso un saccheggio sistematico delle risorse minerarie. Ed è questa oggi la principale causa della guerra e del caos che destabilizzano la regione.
Secondo uno studio realizzato dalla francese Ecole de Guerre Economique (Ecg), dal titolo La guerre du coltan en Rdc, «l’Europa e gli Stati Uniti sono totalmente dipendenti dalla riserve straniere di coltan. Quello che è in gioco per questi Stati dotati di sistemi di difesa ad alta tecnologia, è che il coltan, oltre al suo potenziale economico effettivo, è strategico, perché il tantalio che contiene è indispensabile all’industria aeronautica, aerospaziale e della difesa». Oltre che per l’industria elettronica e delle telecomunicazioni.

Denunce e rapporti si sono moltiplicati in questi anni, ma sono caduti sostanzialmente nel vuo¬to: il saccheggio continua come e più di prima, in una situazione di totale opacità e impunità. «Stiamo lavorando sulla tracciabilità dell’intera filiera – afferma il ministro – e abbiamo avviato una riflessione con i banchi di vendita di Bukavu. Abbiamo anche abbassato le tasse, ma Ruanda e Burundi continuano ad averle più basse di noi e molti preferiscono aprire banchi di vendita  oltreconfine». È sottinteso che, al di là della frontiera, i minerali ci arrivano clandestinamente. Ma, sempre al di là della frontiera, nessuno si fa scrupoli ad acquistare le materie prime congolesi, che in Kivu vengono bollate dalla comunità internazionale come «minerali insanguinati», con tanto di campagna di boicottaggio, cui aderiscono i Paesi europei, gli Stati Uniti e più recentemente la Cina.

«Peccato che quest’ultima – denuncia il titolare di uno dei 17 banchi ufficiali di acquisto e vendita presenti a Bukavu – compri indirettamente dalla Thailandia e che gli altri facciano lo stesso, acquistando da intermediari. È una grande ipocrisia, che arricchisce molti fuori di qui, mentre chi ci perde è sempre la popolazione congolese». Lui sta pagando in prima persona. Preferisce mantenere l’anonimato perché ha in corso un processo in Belgio proprio per la vendita di «minerali di guerra». «Ma è quello che fan tutti – si difende -. Almeno io lavoro in territorio congolese, pagando le tasse qui».  Nel suo magazzino, una lavagnetta avverte i negozianti: «Non accettiamo minerali che vengono dalle zone controllate dalle bande armate». Ma anche questa è un po’ una farsa…

«La comunità internazionale – si difende il ministro, mostrando il certificato di origine congolese, che paradossalmente equivale a un’etichetta di “minerale insanguinato” – sa benissimo da dove vengono le materie prime acquistate con certificati di origine dei Paesi limitrofi, che non ne posseggono. Perché invece di boicottarci non proviamo a lavorare meglio insieme?». Lei stessa, però, sa bene che i margini di lavoro del suo stesso ministero – in teoria uno dei più potenti e influenti – sono al¬quanto ridotti. La decadenza della palazzina in cui ha sede è emblematica dello sfacelo di un’autorità provinciale e statale che non ha alcun controllo del territorio. Il Kivu è in balìa di predatori voraci e spietati, che hanno organizzato un sistema illegale di sfruttamento delle ri¬sorse minerarie, infarcito di corruzione a tutti i livelli. In questa geopolitica del caos, il proseguimento dei combattimenti e l’instabilità sono chiaramente funzionali allo sfruttamento delle ricchezze.

Spiega Didier De Failly,  gesuita belga, ricercatore universitario e massimo esperto della situazione mineraria della regione, in Congo da oltre quarant’anni «Le miniere del Sud Kivu sono tutte gestite a livello artigianale. In passato, e specialmente tra il 1998 e il 2003, molte erano controllate direttamente dall’esercito ruandese che obbligava gli abitanti dei villaggi a lavorare come schiavi». Lo conferma anche un rapporto di una speciale commissione parlamentare istituita nel 2004. Nel periodo preso in considerazione (gennaio 1996 – giugno 2003) «coloro che guidavano ve¬ramente il gioco e saccheggiavano le risorse naturali erano, se non tutti, in larga maggioranza degli straneri, ruandesi e ugandesi». Il rapporto non è mai stato preso in seria considerazione e non ha avuto alcun seguito.
«Oggi la situazione è un po’ cambiata – precisa De Failly -. Sono soprattutto l’esercito, le Fdlr, i capi tradizionali, i gruppi ribelli (mayi mayi, ex Cndp e altri) che controllano le miniere. Ma sono sempre il Ruanda (in particolare per coltan e cassiterite) e il Burundi (specialmente per l’oro) che continuano a vendere questi minerali sui mercati internazionali. Con perdite enormi per lo Stato congolese e per la popolazione, che sono i veri perdenti di questa guerra e di questi traffici che si fanno sulla loro terra».

De Failly è contrario al boicottaggio. «Il Congo e la sua gente devono poter beneficiare delle loro ricchezze. Il boicottaggio non serve a niente e colpisce solo chi già ci perde. Occorre invece lavorare per una maggiore trasparenza della filiera, per combattere la corruzione e il traffico illecito e per rendere più giuste le condizioni di lavoro, affinché le ricchezze di questo Paese profittino davvero alla sua gente». Attualmente non ci sono grosse imprese straniere che lavorano in Sud Kivu. Solo la canadese Banro sta facendo prospezioni e non è ancora passata alla fase dello sfruttamento. Quanto agli acquirenti, stando al rapporto del luglio scorso di Global Witness – significativamente intitolato Di fronte a un fucile, che cosa si può fare? – sono innanzitutto imprese europee e asiatiche, come la Thailand Smelting and Refining Corporation (Thaisarco), che fa parte del gruppo britannico Amal¬gamated Metal Corporativon (Amc), la britannica Afrimex e diverse imprese belghe tra cui la Trademet e la Traxyx. In passato anche l’ex compagnia aerea di bandiera belga Sabena è stata coinvolta in traffici illegali di minerali del Congo, per i quali utilizzava normali voli di linea da Kigali verso l’Europa. Quanto alle Fdlr, non controllerebbero direttamente i siti minerari, ma imporrebbero «tasse» illegali e taglieggiamenti nel corso dei vari passaggi, dalla miniera al banco di vendita. A volte questo avviene in combutta con lo stesso esercito, di cui do¬vrebbero essere gli acerrimi nemici. Nel Sud Kivu, spesso i minerali prodotti dalle Fdlr vengono spediti da piccoli aeroporti locali controllati dalle forze armate congolesi. In questo modo, come conferma anche il rapporto di Global Witness, le Fdlr continuano a finanziarsi attraverso il traffico illecito di minerali con la complicità di attori locali e internazionali.

Quel che è certo è che chi sfrutta le miniere non si fa alcuno scrupolo a sfruttare anche la gente che ci lavora. La visita a una miniera d’oro è illuminante nella sua cupa drammaticità. Un mondo al maschile, fatto di giovani uomini e moltissimi ragazzini, costretti a incunearsi in cu¬nicoli angusti e pericolanti, ricoperti di polvere dalla testa ai piedi, delle specie di fantasmi grigi che si aggirano un po’ storditi in mezzo al rumore ritmato degli scalpelli. Le uniche donne sono quelle che salgono e scendono con i rifornimenti e le ra¬gazzine costrette a fare le prostitute.

La miniera di Mukungwe, detta Morocco, è una specie di ferita tra le montagne della zona di Walungu. Bisogna scendere lungo un ripido sentiero per arrivare in una sorta di accampamento di casette di fango. Qua e là si aprono i buchi dei tunnel che penetrano nella montagna. Già l’ingresso non è per nulla rassicurante. Dentro bisogna letteralmente strisciare per raggiungere le vene l’oro. Fuori, gruppi di ragazzi riducono i sassi in polvere, che poi setacciano nell’acqua, per ricavarne una finissima polvere d’oro.

Abdou racconta che lui in quella miniera ci sta investendo, ma non è ancora riuscito ad arrivare a una vena d’oro. Per il momento è solo un costo e niente guadagno. Ma ci spera, perché lì ha investito tutto il suo futuro e quello della sua famiglia. Dal tunnel accanto esce Louis, un adolescente, che in questo posto orribile passa le sue vacanze per rimediare i soldi  delle tasse scolastiche. Anche François è in vacanza, ma lui è il figlio del capo e fa un po’ il capetto pure lui. L’arroganza non gli manca, soprattutto per chiedere assurde mazzette. Se ne sta lì, con il suo cappello maculato da cowboy insieme ad altri chef e supervisori per controllare che nessuno rubi. A prima vista, la miniera sembra un girone infernale di polvere e confusione; in realtà c’è un’organizzazione invisibile e ferrea che non permette a nessuno di fare il furbo. Del resto il chef de colline, ovvero quello che conta davvero, non è tipo che si può contraddire. Ci impone di passare al suo cospetto, atteggiandosi a grande capo con tanto di scagnozzi attorno, per minacciarci e farci la ramanzina. Sono i sistemi che usa, ben più brutalmente, per costringere i suoi scavatori a la¬vorare in condizioni indegne per qualsiasi essere umano. Per pochi dollari e un pugno di polvere d’oro.