Sudafrica, caccia al nero

Sudafrica, caccia al nero

Il Paese di Mandela è piombato di nuovo nella spirale della violenza xenofoba e razzista. E le accuse agli stranieri somigliano troppo a quelle che si sentono sempre più anche in Italia

«Gli immigrati devono capire che facciamo loro un favore nell’accoglierli e che la nostra priorità è occuparci dei nostri compatrioti ». E ancora: «Siamo seduti su un ordigno a scoppio ritardato: gli stranieri rischiano di prendere il controllo del Paese». Del resto, «gli immigrati accrescono la disoccupazione e la criminalità».

C’è una straordinaria e inquietante somiglianza tra le dichiarazioni populiste e xenofobe che circolano ai quattro angoli del pianeta. E che con altrettanta inquietante puntualità esplodono in episodi di violenza, non solo verbale, tra estremisti di tutte le specie e categorie. È quanto capitato negli scorsi mesi in Sudafrica, ma è successo o potrebbe succedere anche in molte altre parti del mondo.
L’altro, il diverso, lo straniero diventano oggetto di odio, vendetta, ritorsione e violenza. Perché l’altro ruba il lavoro e l’identità. Si prende le donne e si prende le case. L’altro crea problemi, anzi è “il” problema. «E allora non ha che da fare le valigie e tornarsene a casa sua». Parola di Goodwill Zwelithini, re degli zulu: il quale non è altri che l’ultimo dei demagoghi ad aver aperto la bocca per sputare il veleno della xenofobia. Che talvolta può anche uccidere. L’ultima ondata di violenze xenofobe, che ha colpito il Sudafrica lo scorso aprile, ha provocato sette morti e ha costretto circa cinquemila persone a fuggire, soprattutto a Durban, dove è partita la caccia allo straniero, che poi si è estesa alla township di Alexandra a Johannesburg e a Pietermartizburg.

Non è la prima volta. Nel 2008, gli scontri, che hanno visto protagoniste soprattutto bande di giovani sudafricani, hanno interessato prevalentemente i sobborghi di Johannesburg, ma si sono diffusi anche alle township delle principali città del Paese. Il bilancio allora era stato di 63 stranieri uccisi e di più di 16 mila persone costrette ad abbandonare le loro case.
Ma ogni anno, lontano dai riflettori e dalle telecamere, centinaia di stranieri vengono uccisi in circostanze non troppo dissimili. E allora guardare a quello che succede in Sudafrica oggi significa anche guardarsi allo specchio. Perché se qui da noi non sono ancora capitate violenze e devastazioni su vasta scala, tuttavia il tarlo della xenofobia si insinua sempre di più nei discorsi di tutti i giorni, prende il tono dell’insulto o della minaccia, si scatena dietro l’anonimato dei social media, ma mostra sempre di più il suo volto anche in televisione. Non scatena necessariamente indignazione o riprovazione sociale, si camuffa di indifferenza o serpeggia in sorda rabbia, nutrendosi spesso di dichiarazioni irresponsabili e di mistificazioni ideologiche o politiche.

Il Sudafrica, in fondo, non è così lontano. Anche nei dati. Con una popolazione di 50 milioni di abitanti, ospita circa 5 milioni di immigrati. Nel nostro Paese, su 60 milioni di italiani, gli immigrati sono 5,5 milioni. Ma il Sudafrica ha una tradizione di “attrazione” e accoglienza dello straniero più antica e consolidata della nostra.

NEL CORSO DEI DECENNI, nella patria di Mandela si sono riversati angolani e congolesi in fuga dalle loro guerre, zimbabweani che scappavano dal regime di Mugabe o cercavano condizioni di vita migliori; mozambicani tradizionalmente occupati nelle miniere (ma non solo). Persino migliaia di etiopi e somali, che prima di tentare le rotte del Nord hanno provato a cercare una terra di accoglienza pacifica a Sud. Ma in Sudafrica si trovano anche moltissimi zambiani o cittadini del Malawi, nigeriani o camerunesi, e persino senegalesi e maliani. È stato – e per molti versi lo è ancora – l’Eldorado dell’Africa, senza un mare di mezzo che lo renda di difficile accesso.

E poi, per molti aspetti, il Sudafrica è stato ed è un Paese ricco. O per lo meno, più ricco dei suoi vicini, anche se da alcuni anni l’economia conosce una flessione sensibile. Per molto tempo il Sudafrica ha rappresentato da solo il 20% del Pil dell’Africa subsahariana. Recentemente, però, è stato superato dall’altro “gigante” del continente, la Nigeria, forte delle sue rendite petrolifere, ma anche di un “patrimonio” demografico di 170 milioni di abitanti. Il problema di fondo, però, sono le diseguaglianze e le sperequazioni. Il Sudafrica è uno dei Paesi in cui il divario nella distribuzione della ricchezza è tra i più ampi al mondo. E i dati sulla disoccupazione lo testimoniano drammaticamente. Nell’ultimo trimestre del 2014, i disoccupati erano il 34,6%, compresi coloro che non cercano nemmeno più un lavoro. Ma nella “nazione arcobaleno” voluta da Mandela, il colore continua a fare la differenza. Anche e soprattutto quando si parla di lavoro e ricchezza. Se infatti tra i bianchi i disoccupati sono solo il 9,4%, la percentuale sale al 16,8% tra indiani e asiatici e al 26,8% tra i meticci. Mentre i neri sono al 39%. E tra i ragazzi di 15-24 anni, più della metà non ha lavoro. Non stupisce, dunque, che tra coloro che si sono resi protagonisti delle peggiori violenze ci siano soprattutto gruppi di giovani neri disoccupati. Anche perché quello che è successo lo scorso aprile ha solo preso a pretesto le dichiarazioni irresponsabili del re degli zulu, che peraltro aveva cercato di ritrattare, dicendo che le sue parole erano state fraintese e deformate dai media. Anche qui, una straordinaria somiglianza con le pretestuose scuse spesso accampate dai nostri politici, quando ormai è troppo tardi.

In realtà, le derive xenofobe sudafricane si radicano in qualcosa di profondo e incancrenito, nelle ferite mai rimarginate di una società che si porta appresso tutto il peso del vecchio e del nuovo apartheid: quello della diseguaglianza e della corruzione, della povertà assoluta, che colpisce ancora circa un terzo della popolazione, e della disoccupazione dilagante, della mancanza di opportunità e di prospettive, del desiderio frustrato di una vita migliore. Un bagaglio di disillusione e rabbia che esplode con qualsiasi miccia.

QUESTO PROFONDO MALESSERE è stato accentuato negli ultimi anni da una classe politica inadeguata e corrotta, che non ha saputo assicurare ai suoi cittadini condizioni di vita dignitose. E che è intervenuta con grave ritardo per condannare le violenze xenofobe. E pure in modo colpevolmente maldestro. Esponenti del governo, come la ministra dello Sviluppo delle piccole imprese, ha esplicitamente detto che «la priorità sono i nostri concittadini», come se gli stranieri presenti nel Paese non avessero dato un contribuito decisivo alla lotta di liberazione in passato e alla crescita economica del Paese in tempi più recenti.

Il presidente Jacob Zuma è intervenuto in Parlamento, più come un atto dovuto, per condannare «tutte le forme di intolleranza e soprattutto di razzismo, xenofobia, omofobia e sessismo» e tutti gli attacchi che «violano i valori incarnati dal Sudafrica, vale a dire il rispetto della vita umana, dei diritti umani, della dignità e del vivere insieme». Suo figlio Edward, tuttavia, ha pensato bene di mettere in guardia i suoi concittadini dal rischio che gli immigrati «prendano il controllo del Paese». Intanto, il virulento leader dell’Economic Freedom Fighters, Julius Malema – ex dirigente della lega giovanile dell’African National Congress (Anc), il partito di governo da cui è stato espulso per le sue prese di posizione violente e razziste – se l’è presa (per il momento) con le statue e i simboli del potere bianco in Sudafrica, presi di mira con atti di vandalismo. Sollevando, così, anche la reazione preoccupata della minoranza afrikaaner, che oggi si domanda se, dopo le statue, non sarà essa stesse a non essere più gradita.

C’è da credere che di fronte a queste derive xenofobe e razziste anche il povero Nelson Mandela – grande sostenitore della riconciliazione e del principio dell’Ubuntu, ovvero di una comunità aperta e solidale – si stia rivoltando nella tomba. E potrebbe non essere finita qui.