Zambia: la miniera usa e getta

Multinazionali e «cultura dello scarto»: crolla il prezzo del rame e la Glenncore chiude in Zambia la mega-miniera di Mopani lasciando senza lavoro 21 mila persone

Il nordovest dello Zambia è una regione di frontiera e allo stesso tempo il cuore del Paese. Qui, nella provincia di Copperbelt si concentrano i grandi giacimenti di rame che hanno segnato la storia recente del Paese. Dalla dominazione britannica fino alla nascita di un movimento prima sindacale e poi nazionalista alla vigilia della decolonizzazione e ai progetti di sviluppo dopo l’indipendenza, per le grandi miniere sono passate le fortune – e le sfortune – dell’intera popolazione.

Uno scenario che si ripete oggi, con l’annuncio di Glencore – gigante svizzero del settore estrattivo – della chiusura, per un anno e mezzo, degli impianti della miniera Mopani, una delle più importanti del Paese: da sola pesa per il 15% sull’intera produzione nazionale di rame. Una decisione motivata innanzitutto da considerazioni economiche: il prezzo del metallo (di cui lo Zambia è il secondo produttore africano) è crollato sui mercati internazionali, produrne non conviene. Ma c’è dell’altro, come spiega padre Giambattista Moroni, missionario con vent’anni di presenza nel paese. «La minaccia di chiusura – ricorda – era stata usata dalle compagnie minerarie anche l’anno scorso, quando il governo aveva tentato di cambiare il sistema di tassazione: la logica è sempre quella dell’interesse, del guadagno, non dei posti di lavoro. Se il profitto non è quello previsto, non si esita a chiudere».

Anche in Africa meridionale, insomma, colpisce la “cultura dello scarto” già denunciata da papa Francesco, da ultimo nell’enciclica «Laudato si’». Intere comunità (in questo caso le famiglie dei 21.000 dipendenti della Glencore, secondo datore di lavoro nazionale dopo lo Stato) restano vittime delle leggi di un’economia che, anche quando marcia a pieno regime, rischia, letteralmente, di uccidere. È di pochi giorni fa la notizia che le comunità che vivono lungo il fiume Kafue, sempre nel Copperbelt, hanno denunciato un’altra multinazionale, la britannica Vedanta Resources. I sottoprodotti delle attività estrattive, infatti, sembrano aver inquinato e reso acide le acque dei corsi d’acqua della zona, con conseguenze sulla vita di migliaia di cittadini. Crisi ambientale, crisi sociale e crisi economica, dunque, continuano a intrecciarsi e sciogliere il nodo non sembra facile.

“Negli ultimi mesi – testimonia infatti padre Moroni – l’indebitamento dello Stato è diventato pesante perché i prezzi del rame sono scesi, mentre la moneta si è svalutata: le merci, soprattutto quelle d’importazione, cominciano a scarseggiare. La crisi si sente in tutto il Paese e in questo quadro perdere il lavoro è un’altra sciagura: l’impatto della chiusura delle miniere potrebbe essere disastroso”. Ad evitarlo proverà il governo, ora in trattative con Glencore, ma il timore di molti è che si ripeta lo scenario di qualche mese fa quando, in materia fiscale, il nuovo presidente Edgar Lungu dovette cedere alle richieste delle compagnie minerarie, accantonando la riforma approvata dal predecessore Michael Sata.

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Foto: la miniera di Mopani; foto Flickr photosmith2011