Colombia cantiere di pace

Colombia cantiere di pace

Viaggio nel Paese dove Papa Francesco si recherà in settembre. Il Pontefice andrà a incoraggiare il processo di riconciliazione dopo l’accordo di pace con le Farc per la fine della guerra civile

A prima vista potrebbero sembrare una qualunque coppia di amici di Bogotá, Luis e Wilson. Una di quelle che, quando si incontra, non vede l’ora di ridere e scherzare davanti a una birra fredda. A guardarli un po’ più da vicino, però, ci si rende conto che il loro rapporto è speciale, perché Wilson è cieco. Ha perso la vista 13 anni fa, a causa di un attentato delle Farc.

Il 18 aprile 2004, Wilson Barreto Roa aveva 19 anni; da un anno era in polizia. Con la sua pattuglia stava trasportando due detenuti nel dipartimento di Caquetá, nel Sud della Colombia. Al passaggio del convoglio di mezzi, una casa esplose: l’auto su cui viaggiava Wilson volò a oltre venti metri di distanza. Morirono dieci suoi colleghi ed entrambi i detenuti. Wilson si svegliò cinque giorni dopo; era vivo, ma aveva perso la vista.

Fu la colonna delle Farc “Teofilo Moreno” a organizzare l’attentato che rese cieco Wilson. Luis Barón era membro di quello stesso gruppo. Era entrato nelle file della guerriglia a 13 anni, ci restò fino al 2005, dopo che un commando armato delle Autodefensa Unida de la Colombia (il gruppo paramilitare Auc) uccise suo padre, e dopo che la sua ragazza, anche lei guerrigliera, venne costretta ad abortire, perché nelle Farc non erano ammesse le gravidanze. «Ero stanco della violenza, non c’è niente di eroico nella guerra», racconta oggi Luis. Nel 2014 Wilson e Luis partecipano allo stesso corso per vittime del conflitto colombiano e lì si incontrano, finiscono nello stesso gruppo, dividono la stessa camera. Scoprono che le loro vite si sono già incrociate dieci anni prima solo quando, all’interno del loro piccolo gruppo, ognuno racconta la propria esperienza di guerra. Il primo istinto è di chiusura, poi però scatta qualcosa: entrambi hanno ascoltato le sofferenze patite dall’altro. Luis chiede perdono a Wilson, anche se sa di non essere direttamente responsabile dell’attentato che gli è costato la vista. «Stiamo combattendo per una guerra inutile, che deve lasciare spazio all’umanità», gli risponde Wilson. Da allora Luis e Wilson si definiscono grandi amici; insieme hanno partecipato alla campagna per il sì al referendum sull’accordo di pace che si è tenuto nell’autunno 2016. Entrambi affermano di non sentirsi vittime o carnefici della guerra, ma vincitori della riconciliazione.

La storia di Luis e Wilson è stata celebrata dalla stampa locale e internazionale, come esempio di una pace possibile in quella Colombia dove dal 6 all’11 settembre Papa Francesco si reca in viaggio proprio per incoraggiare la riconciliazione. La Colombia oggi è davvero un “arcipelago di speranza”; le voci contrarie alla pace, quelle che, con il 50,24% si sono imposte nel referendum del 2 ottobre 2016, costringendo il governo a rivedere il testo dell’accordo di pace con le Farc, si vanno affievolendo, e prevale l’entusiasmo per l’inizio di questo nuovo corso della storia.

Soprattutto nelle zone maggiormente ferite dalla guerra, sono attivi percorsi verso la riconciliazione, incontri, dibattiti. L’attentato contro il locale El Nogal, avvenuto nel 2003 nella capitale Bogotá, fu tra i più letali nella storia del Paese: morirono 37 persone e i feriti furono quasi 200. Quest’anno, i familiari delle vittime hanno incontrato già due volte ex rappresentanti delle Farc, alla ricerca di un dialogo difficile ma necessario. L’obiettivo, raccontano, non è solo far emergere la verità su quanto accaduto, ma anche riuscire a guardare al futuro, senza dimenticare le ferite del passato, trasformando il dolore in pace, non in odio.

«Il Papa ha detto che le vittime sono un ponte per costruire la pace», spiegano le associazioni dei familiari delle vittime, che sperano di riuscire a incontrare Francesco durante il viaggio.

Sempre per amore della riconciliazione, lo scorso febbraio, venti bibliotecari hanno lasciato le loro famiglie, per entrare e restare per due settimane nelle aree veredali (Zonas Veredales Transitorias de Normalización, in tutto una trentina sparse per buona parte del territorio nazionale), cioè i villaggi temporanei costruiti dall’Onu e dall’esercito colombiano dove gli oltre ottomila effettivi delle Farc si sono radunati, per consegnare le armi e per iniziare un percorso di reinserimento nella società. Molti e molte di loro sono entrati nella guerriglia ancora minorenni, per tanti è stato un passaggio obbligato, quasi tutti ora vorrebbero riprendere gli studi.

L’idea di creare venti biblioteche “mobili”, nelle Zonas più grandi, è nata dai bibliotecari stessi. Hanno cercato fondi, hanno aggiunto ai libri giochi da tavolo, tablet per la lettura di testi digitali, un proiettore e una cinquantina di film, una videocamera, i computer e la connessione ad internet. La cosa più difficile, raccontano, è stata scegliere i 380 titoli da inserire tra gli scaffali, tra i quali si trova di tutto: dai temi sociali alla letteratura, dalle grandi opere classiche ai manuali di agraria, ma anche volumi sulla storia colombiana e testi giornalistici sulla guerra. La speranza è che queste piccole biblioteche diventino luoghi di coesione comunitaria, di arricchimento e di confronto; luoghi in cui la guerriglia armata lasci il passo a un nuovo movimento politico.

La voglia di pace e riconciliazione contagia poi anche lo sport: per questo la Fondazione Fútbol y Paz Construyendo País ha dato vita a tre nuove formazioni, che ambiscono a giocare nei campionati ufficiali nazionali: una maschile, una femminile e una under 20. Tra i giocatori e le giocatrici vi sono profughi interni, vittime di attentati, ex guerriglieri ingaggiati direttamente nelle aree veredali. Si allenano ad Apulo, 100 chilometri a ovest di Bogotá, e il loro esordio sarà il prossimo 21 settembre, che in Colombia è la Giornata della Pace.

A sostenere l’entusiasmo per la chiusura di un capitolo così violento, ci sono i passi che, sulla carta, la Colombia ha già compiuto: in marzo, per esempio, è stata approvata la Jurisdicción Especial para la Paz  (Giurisdizione speciale per la pace – Jep), il sistema che dovrà giudicare gli ex militanti delle Farc, gli agenti di polizia e i civili colpevoli di delitti nel conflitto. In aprile, invece, sono entrate in funzione la Commissione per l’Accertamento della Verità, la Convivenza e la non Ripetizione, così come l’Unità per la Ricerca dei Desaparecidos (61 mila persone dal 1970 ad oggi, 10 mila negli ultimi 10 anni).

Nonostante i ritardi (e la conseguente scia di polemiche), le aree veredali per ex militanti (in cui le donne sono almeno un terzo) sono operative; il 23 giugno, il presidente Juan Manuel Santos ha dichiarato concluso formalmente il disarmo totale della guerriglia.

L’ottimismo verso il futuro si scontra però con le incognite: quanto tempo resteranno i militanti nelle aree protette? Saranno davvero accettati poi dalle comunità in cui cercheranno di inserirsi? I gruppi paramilitari non cercheranno la vendetta? Riuscirà l’ex guerriglia armata a dare vita a un movimento politico serio, in tempo per le elezioni del 2018?

Il governo del presidente Santos (premio Nobel per la Pace 2016) deve anche affrontare le tremende conseguenze del conflitto che si sta chiudendo e che ha causato, solo nel 2016, 171 mila profughi interni. Ad esempio, l’incremento della coltivazione della coca: da 96 mila ettari nel 2015 a 150 mila nel 2016. Ma anche la nascita o il ritorno di altri gruppi armati, che ambiscono al controllo dei territori lasciati liberi dalle Farc.

Un esempio di questa “tempesta perfetta” è la città di Tumaco, nel Sud, 200 mila persone, soprattutto afrocolombiani; la corruzione è endemica, la voce delle istituzioni è debole, il tasso di disoccupazione tra i giovani è altissimo, metà della popolazione si guadagna da vivere come può. Per la malavita è il vivaio ideale.

«Molte volte, per il solo fatto di avere un’arma in mano, i giovani si sentono più importanti, più ascoltati. Come se un’arma valesse più di un dottorato», racconta padre Daniele Zarantonello, missionario comboniano italiano che opera qui.

L’attività economica più remunerativa a Tumaco è il narcotraffico: all’interno del territorio del comune vi sono 17 mila ettari di coltivazione di coca, ma si tratta di una stima per difetto. Ogni anno, dal porto della città, prendono il largo 200 tonnellate di cocaina pronta al consumo. A gestire il mercato sono i potenti cartelli della droga messicani. Nel 2016, il tasso di omicidi nazionale ogni 100 mila abitanti è sceso a 25; ma a Tumaco è salito a 70.

«All’interno della nostra parrocchia si riassume tutto il conflitto colombiano: la presenza della guerriglia, quella esagerata dell’esercito e della polizia. Ci sono zone in cui non si può passare, ci sono le frontiere invisibili», spiega ancora padre Daniele.

A Tumaco si contano una decina di gruppi armati che si stanno disputando i territori lasciati dalle Farc. Questo perché, se non cambia il contesto nel quale vivono e hanno vissuto, per tutti i miliziani tagliati fuori dall’accordo cambieranno solo il capo di turno e la sigla dell’organizzazione a cui appartenere. Nel barrio Viento Libre, uno dei più poveri di Tumaco, molti bambini non erano mai andati a scuola. Padre Daniele, coinvolgendo la comunità, è riuscito ad aprire nel quartiere una esculelita, attiva ormai da quattro anni.  Da allora i bambini non devono attraversare più le frontiere invisibili di Tumaco per andare a scuola, non corrono rischi. E il loro futuro comincia ad essere più luminoso.