Hong Kong vent’anni dopo

Hong Kong vent’anni dopo

Lo scorso primo luglio è stato celebrato il ventesimo anniversario del ritorno di Hong Kong alla Cina. Molte ombre incombono sul futuro della metropoli che perde sempre di più democrazia e libertà

 

A vent’anni dal “ritorno” – o dalla “restituzione” – di Hong Kong alla Cina, almeno 60 mila persone sono scese in strada lo scorso primo luglio per dimostrare la preoccupazione che pervade la città. I gruppi che chiedono giustizia e democrazia per Hong Kong raccolgono il consenso della maggioranza della popolazione. La gente comune soffre a causa di una politica economica sempre più spregiudicata a favore delle oligarchie capitaliste, sodali della classe dirigente comunista di Pechino. Un’alleanza – comunismo e capitalismo – paradossale e quanto mai nefasta. I prezzi delle case sono astronomici e impediscono alle famiglie di reddito medio e basso di emanciparsi dalla loro condizione di subalternità economica. Frotte di operai e di impiegati si sottopongono a orari di lavoro massacranti, senza che questi sacrifici si traducano in migliori condizioni di vita. La loro fatica va ad arricchire clan familiari e finanziari che sono già ricchi all’inverosimile. Il governo di Hong Kong ha una riserva finanziaria enorme, ma si guarda bene dall’investirla per le politiche sociali: si toglie a chi non ha, per dare a chi ha già troppo.

La tensione cresce in città anche per l’allontanarsi di ogni prospettiva democratica. Per mantenere lo status quo, il regime non può concedere libertà politiche e il suffragio universale. Di fatto, Hong Kong non è mai stata veramente democratica (né prima né dopo il passaggio alla Cina). Ma per un lungo periodo ha goduto di una certa libertà e di garanzie legali riconosciute internazionalmente. Ciò ha favorito la sua fortuna finanziaria e il sostegno internazionale. Ora, invece, gli spazi effettivi di libertà si restringono sempre più. È un’operazione lenta, progressiva, poco appariscente, ma quanto mai efficace. Lo dimostrano i “sequestri”, giuridicamente non perseguibili, dei piccoli editori critici del regime comunista, nel 2015-2016. Alla vigilia dello scorso 1 luglio, invece, sono stati arrestati “preventivamente” i giovanissimi leader della “rivoluzione degli ombrelli”, tra cui Joshua Wong. In marzo, poco dopo l’elezione del nuovo Capo esecutivo Carrie Lam, è stata annunciata l’incriminazione degli intellettuali che, nel 2014, hanno dato vita al movimento Occupy Central, da cui è nata la “rivoluzione degli ombrelli”. Nonostante l’accusa sia il modestissimo reato di “disordine pubblico”, i leader democratici rischiano alcuni anni di prigione. Il cardinale Joseph Zen, vescovo emerito di Hong Kong e loro amico e sostenitore, si è impegnato personalmente, proprio in occasione dell’anniversario del primo luglio scorso, nella raccolta di fondi per sostenere la loro difesa in tribunale. Nel frattempo, provocatori legati ai clan mafiosi o ai servizi di sicurezza nazionale, creano situazioni di violenza nel corso di manifestazioni pacifiche o intimidiscono, in modi inquietanti, i leader dei movimenti democratici.

C’è una forte  minoranza, tuttavia, che sostiene le politiche di Pechino, qualunque esse siano. Dalla sua parte ha il sostegno di tutti gli apparati governativi e finanziari, sia locali che nazionali. I gruppi pro Pechino sono sempre più in prima linea nel boicottare, con tutti i mezzi, le iniziative dei democratici. È successo anche il 1° luglio, quando il tradizionale spazio di preghiera dei cristiani nel Parco Vittoria era stato assegnato a gruppi pro Pechino, che lo avevano prenotato con anni di anticipo proprio per evitare che altri lo usassero quel giorno.

Le promesse dell’allora presidente Deng Xiaoping – che aveva gestito la transizione nel 1997 – di concedere a Hong Kong, per almeno cinquant’anni, un “alto grado di autonomia”, sulla base della formula “un Paese, due sistemi”, sono già state ampiamente tradite. Nell’idea di Deng quel periodo avrebbe dovuto permettere alla Cina di divenire come Hong Kong. Ma questo sta succedendo solo per l’aspetto economico. Sotto il profilo delle riforme politiche e sociali, invece, è Hong Kong che sta diventando come la Cina.

Per contrastare la trasformazione di Hong Kong in una delle tante città cinesi, è sorto un fenomeno nuovo, importante e imprevisto: il movimento dei giovani “localisti”. Un numero crescente di studenti delle scuole superiori e dell’università reclamano di non essere cinesi, ma solo “cittadini di Hong Kong”. Sognano una città (che conta sette milioni di abitanti) completamente indipendente. Sognano di essere gli unici artefici del loro destino. Hong Kong ha già una sua amministrazione, polizia, moneta, confini, lingua e sistema giuridico separato dal resto della Cina. Ma l’idea dell’indipendenza, fino a tre anni fa, non era mai stata nemmeno ipotizzata. L’indipendenza è una chimera concretamente e politicamente impossibile. Pechino è disposta persino all’azione militare per impedirlo. Una caserma dell’esercito popolare cinese, collocata nel parco di Tamar, nel cuore stesso della città, lo ricorda in modo inequivocabile. Come se ce ne fosse bisogno, l’attuale presidente Xi Jinping l’ha ribadito proprio a Hong Kong nel corso del suo discorso del primo luglio. «Qualsiasi tentativo di mettere in pericolo la sovranità e la sicurezza della Cina e di sfidare il potere del governo centrale (…) è un atto che supera la linea rossa ed è assolutamente inammissibile».

Ma proprio le richieste impossibili dei giovani studenti mostrano la distanza tra le nuove generazioni e le classi dirigenti. La politica perseguita da Hong Kong e da Pechino si è alienata i giovanissimi ragazzi di questa immensa e modernissima metropoli. La retorica nazionalista non li avvince. I due governi – locale e nazionale – non hanno alcuna attenzione verso la realtà concreta della popolazione di Hong Kong. I funzionari politici ascoltano solo se stessi e i potentati economici che li sostengono. Nessuno spazio agli appelli di chi, come la Chiesa cattolica, non ha mai smesso di chiedere ai governanti di rispondere positivamente alle richieste della gente in termini di democrazia e giustizia sociale. Nati dopo il ritorno di Hong Kong alla Cina, gli studenti sono estranei alle dinamiche del nazionalismo cinese versus il colonialismo britannico. Hong Kong è la loro patria, l’unica che hanno, e non vogliono vedersela scippare dalla lontana Pechino. Ma se oggi Hong Kong è già in questa situazione, quanto manca a un effettivo e totale assorbimento da parte della Cina?

Molti studenti non partecipano più nemmeno alla grande e commovente veglia del 4 giugno al Parco Vittoria, dove ogni anno si commemora il massacro di piazza Tiananmen (1989). I giovani di Hong Kong la considerano una vicenda lontana, geograficamente e temporalmente. Del resto, non sono entusiasti nemmeno della grande e tradizionale manifestazione del 1° luglio perché non si sentono rappresentati dal comitato che da vent’anni la organizza. Per molto tempo questo comitato ha raccolto, in modo efficace e inclusivo, i numerosi gruppi di base della rete democratica. Ma oggi non riesce più a cogliere le istanze delle generazioni più giovani, estranee alle dinamiche politiche ereditate dal passato. Forse per non alienarsi del tutto la simpatia e il supporto della nuova generazione studentesca, nella piattaforma della manifestazione di quest’anno è apparso un appello che può essere interpretato come una richiesta di indipendenza politica.

L’imprevisto sviluppo ha causato il ritiro dal comitato organizzatore della Commissione giustizia e pace della diocesi di Hong Kong, il gruppo più avanzato, socialmente e politicamente, della Chiesa locale, che per anni ha interpretato e sostenuto la forte azione sociale del vescovo emerito Joseph Zen. Ma quest’anno la Commissione non poteva esporre la Chiesa al pericolo di ritorsioni da parte delle autorità di Pechino. Dunque, per la prima volta, non ha aderito e sostenuto la manifestazione. Naturalmente numerosi cattolici, e persino qualche religioso, hanno partecipato, a titolo personale, alla marcia di protesta.

La Commissione giustizia e pace ritiene che, invece di un’impossibile indipendenza, sia più utile chiedere la fine dell’interferenza dell’Ufficio di collegamento (Liaison Office) che a Hong Kong rappresenta il governo di Pechino. I funzionari di questo ufficio, che provengono dai quadri del Partito comunista e non dell’amministrazione statale, interferiscono in tutte le decisioni. L’autonomia di Hong Kong e il principio dei “due sistemi” si sono trasformati in vuota retorica, mentre i funzionari inviati da Pechino manovrano l’elezione del Capo esecutivo e le decisioni che riguardano il processo di democratizzazione della città.

La Chiesa cattolica, nonostante la sua esiguità numerica (il 7% della popolazione), rappresenta ancora una forza vitale della città. Il cardinale Zen rimane una vera e propria icona della democrazia e della libertà; il suo testimone è stato raccolto dal vescovo ausiliare, il francescano Joseph Ha, attento alle questioni sociali e presente in molti momenti di protesta pubblica. Mentre, alla guida della diocesi, il testimone è passato, lo scorso luglio, dal cardinale John Tong al vescovo Michael Yeung. Il cardinale Tong, considerato dialogante e moderato, non aveva mancato di criticare, in modo efficace e tempestivo, il nuovo Capo esecutivo, la cattolica Carrie Lam, che aveva inopinatamente proposto di istituire anche a Hong Kong un “Ufficio degli affari religiosi”. Un’idea inquietante, in quanto proprio questo Ufficio, in Cina, ha il compito di controllare l’attività religiosa a nome del governo. Fortunatamente Lam ha ritirato l’improvvida proposta, e la comunità cattolica di Hong Kong è grata al cardinale Tong per aver risparmiato (almeno temporaneamente) questo pericolo a una città che oggi deve affrontare tante e cruciali sfide.