Affari di famiglia

Padre Ferdinand del Pime opera tra gli indigeni miztechi del Messico che oggi vivono in bilico fra tradizione e nuove sfide. Una rilettura della loro morale familiare alla luce di “Amoris Laetitia”

A Yoloxochitl ho assistito al matrimonio di Josè e Maria. Era un sabato sera. C’è stata una festa con ballo fino a notte fonda. Il giorno dopo, finita la Messa, ho visto una fila di gente in processione con i musicisti che suonavano allegramente. Gli uomini portavano casse pesanti di birra sulle spalle e le donne vassoi di pane e altri regali. Tutti avanzavano in direzione della casa della ragazza. Mi hanno spiegato che si trattava della “tornaboda”, una festa per il padre della sposa che era risultata vergine la notte di nozze. È un onore per il padre il fatto di aver saputo mantenere intatta la figlia fino la matrimonio. Se invece la sposa non fosse risultata vergine, la colpa sarebbe stata della madre che non aveva saputo educare adeguatamente la figlia.

Questo modo di concepire e vivere il matrimonio appartiene alla tradizione indigena mizteca del Messico. Tuttavia, oggi, sempre di più, i modi e la morale tradizionale si confrontano e a volte si scontrano con nuove prassi.

Ad esempio, quando un ragazzo si mette d’accordo per convivere con la sua fidanzata, i miztechi dicono che ha “rubato” la ragazza. La giovane coppia vive sotto il tetto dei genitori di lui, soggetta all’autorità del padre di famiglia. Vista l’età molto giovane della ragazza, la suocera le insegna a essere una buona casalinga, sposa e madre. Per i miztechi, vivere con suoceri e cognati non (sempre) viene visto come un peso.

Noi missionari del Pime, però, ogni anno siamo costretti a cancellare alcuni nomi dalla lista dei candidati alla prima comunione o alla cresima, per il fatto che, prima ancora di ricevere questi sacramenti d’iniziazione cristiana, i ragazzi vanno a convivere in unione libera. In questi casi, chiediamo alla coppia di aspettare qualche anno (il tempo di compiere 16 anni per la ragazza e 18 per il ragazzo) prima di ricevere la comunione il giorno del matrimonio. Se nel frattempo nascessero dei bambini, celebriamo anche il battesimo.

A volte, però, le cose non funzionano come i ragazzi avevano programmato. Dopo un periodo più o meno lungo di convivenza, la ragazza decide o è costretta a tornare a casa dei suoi. Questo fatto è vissuto come una ferita profonda dalla famiglia di lei, perché nessun altro vorrà sposarsi con una ragazza “fracasada”. Il discredito è ancora più grande se la ragazza “rubata” non risulta vergine la prima notte. In questo caso, viene discretamente ripudiata perché di “seconda mano”. Altre “minacce” incombono oggi sulle famiglie mizteche. Una delle più diffuse è la separazione per motivi di lavoro. Succede spesso, infatti, che, dopo il matrimonio, lo sposo affidi la moglie ai genitori e vada a cercare lavoro in città o negli Stati Uniti. Purtroppo, molte volte, ancor prima di trovare lavoro, l’uomo trova l’affetto di altre donne, dimenticando così la sposa legittima che vive sotto il tetto dei suoceri per anni, aspettando qualcuno che magari non tornerà più. Lui si arroga il diritto di fondare una famiglia parallela, mentre lei vive soggetta all’autorità e al controllo dei suoceri, a volte per il resto della vita se non trova il coraggio di andarsene considerandosi una sorta di “vedova” di uno sposo vivo. In questi casi, noi cerchiamo di seguire la parola di Papa Francesco quando dice che «va accolta e valorizzata soprattutto la sofferenza di coloro che hanno subito ingiustamente la separazione, il divorzio o l’abbandono». Se la Bibbia dice: «Ciò che Dio ha unito, che non lo separi l’uomo» (Mt 19, 6); qui noi diciamo: «Ciò che Dio ha unito, che non lo separi il lavoro». Un altro aspetto molto delicato e cruciale, in cui tradizione e nuove pratiche confliggono, è quello dei figli. Se un tempo rappresentavano il dono più grande, oggi vengono disincentivati dallo stesso governo, che “ricatta” gli indigeni attraverso una politica di concessione dei sussidi che “premia” le famiglie meno numerose. “La famiglia piccola vive meglio”, dice lo slogan della campagna “Prospera” lanciata nel settembre del 2014 dal governo messicano. Ogni due mesi, mamme, anziani e disabili ricevono un aiuto economico per vivere degnamente. Ma con il tempo, ciò che doveva creare benessere e felicità, è diventato tutt’altra cosa. Se una famiglia vuole ricevere il sostegno economico, infatti, deve sottomettersi a certe condizioni, fra cui la limitazione delle nascite.

Per tanti indigeni,  purtroppo, l’unica fonte di entrata economica è rappresentata da questi sussidi del governo. Per questo, si sottomettono ai criteri di limitazione delle nascite, dimenticando che – come insiste il Papa in “Amoris Letitia” – «la famiglia è l’ambito non solo della generazione, ma anche dell’accoglienza della vita che arriva come dono di Dio». Per questo, anche qui in Messico, nel rispetto della cultura e della tradizione locale, dobbiamo fare nostra la sua Esortazione: «Ad ogni donna in gravidanza desidero chiedere con affetto: abbi cura della tua gioia, che nulla ti tolga la gioia interiore della maternità. Quel bambino merita la tua gioia. Non permettere che le paure, le preoccupazioni, i commenti altrui o i problemi spengano la felicità di essere strumento di Dio per portare al mondo una nuova vita».