Belém, la città senza bambini di strada

Belém, la città senza bambini di strada

La denuncia sui bambini di strada uccisi a Rio a pochi mesi delle Olimpiadi, ha riacceso i riflettori su questo volto tragico del Brasile. Eppure una città senza bambini di strada anche in Brasile è possibile. E don Bruno Secchi, 76 anni, sardo, già salesiano e da anni sacerdote della diocesi di Belém, lo racconta in un modo che sembra confermare un’ovvietà. Invece ha dovuto lavorare quarant’anni per raggiungere quest’obiettivo. E in questa testimonianza racconta come è stato possibile.

 

da Belém (Pará, Brasile) 

Sono arrivato Belém nel 1969 per la Scuola Salesiana del Lavoro, in pratica una scuola professionale tipica della Congregazione di don Bosco alla periferia della città. Con alcuni giovani abbiamo iniziato ad un certo punto un esercizio formativo. Consisteva nel seguire i giornali per una settimana e poi trovarci a discutere sugli avvenimenti o i problemi sociali che ci avevano colpito di più e confrontarci col Vangelo. Ad un certo punto ci siamo imbattuti nel fenomeno dei ragazzi che lavoravano in strada. Non ci vivevano, ma ci lavoravano, facevano i venditori di frutta e verdura o altro. Erano guardati dall’alto in basso dalla gente e non erano ben visti dalla polizia e dalle autorità pubbliche. Abbiamo organizzato il Ristorante del Piccolo Venditore attorno ad un piccolo fornello a carbone in una stradina del centro. I ragazzi potevano venire da noi a pranzo pagando un centesimo. Abbiamo cominciato a conoscerli, discutere con loro, capire la loro situazione, vedere come migliorare la loro condizione, se qualcuno poteva tonare a scuola, finché non abbiamo fondato la Repubblica del Piccolo Venditore. Non avevamo grandi obiettivi. Solo aiutarci a vicenda.

Naturalmente ogni attività ed organizzazione ha dei costi. Abbiamo però deciso che nulla avremmo preso dal governo dei militari, per essere liberi, né dalle organizzazioni internazionali. Allora ho copiato l’idea dell’Abbé Pierre di Parigi e della sua comunità Emmaus. Avremmo raccolto materiali di scarto ed oggetti usati per rivenderli o riciclarli. Così all’inizio si è finanziata la Repubblica del Piccolo Venditore. La scuola salesiana dove lavoravo è diventata un deposito di mobili e ferraglie.

Padre Bruno Secchi

Il vero problema dei ragazzi di strada però viene dopo: negli anni Ottanta e soprattutto Novanta. Per fortuna anche il governo si muove mentre monta la pressione dell’opinione pubblica internazionale. Le autorità convocano cinque organizzazioni del settore e chiedono di avviare un coordinamento unitario per i ragazzi di strada. Entro il 1984 riusciamo a censire circa 400 organizzazioni attive. Si crea una prima rete di mille educatori che si riconoscono e si consultano a vicenda. Nel 1985 nasce il “Movimento nazionale dei ragazzi di strada” finanziato dall’Unicef con sede a Belém ed il sottoscritto come coordinatore per i primi due anni. Nel frattempo sempre a Belém nel 1982 si era verificata la prima protesta pubblica dei ragazzi di strada contro il governo, che voleva sloggiarli dal percorso della processione cittadina del Cirio di Nazaré e pretendere che non esistessero e non avessero diritti; mentre nel 1983 sempre da noi era nato il primo Centro di difesa dei minori. Nel 1986 avviene il primo incontro nazionale dei ragazzi di strada a Brasilia. Una ragazza denuncia in pubblico l’arroganza delle forze dell’ordine: “Perché devo prostituirmi ad un poliziotto prima di essere lasciata libera?”, chiede ad un senatore.

Nei primi anni Novanta l’Unicef finanzia un’altra grossa iniziativa per lo studio della condizione dei minori all’interno dell’Amazzonia. È allo stesso tempo una benedizione ed un trauma. Vengono allo scoperto le condizione dei bambini che lavoravano nella produzione del carbone nella foresta, delle ragazze a disposizione dei cercatori d’oro (garimpeiros), dei bambini che si tagliavano le dita nelle segherie e venivano risarciti con una maglietta o un paio di scarpe. Articoli, libri, programmi televisivi sbattono tutto in faccia all’opinione pubblica.

Belém è una città relativamente piccola (oggi due milioni di abitanti) per cui all’inizio degli anni Duemila eravamo in grado di contare “solo” 170 ragazzi ancora in strada. Abbiamo creato venti equipe di osservazione (quattro nostre e sedici del governo) in altrettanti punti strategici della città e abbiamo affrontato i casi uno per uno. È difficilissimo che un minore non abbia un nucleo familiare di riferimento. Ce l’ha sempre. Ma se ne è allontanato o ne è stato cacciato. Il lavoro di “recupero” quindi è molto articolato e complesso. Normalmente il primo passo è di ricostituire un rapporto familiare: capire perché è avvenuto l’allontanamento, cosa non funziona in casa… Nello stesso tempo il minore deve capire in che situazione si trova, che non è l’ideale, è pericoloso, non avrà un futuro, deve tornare a scuola o almeno imparare un lavoro. Terzo, dopo un approccio graduale di amicizia e convincimento, bisogna offrire appunto a chi è sulla strada delle possibilità concrete di studio o di lavoro come impegno significativo del tempo e recupero di dignità ed orientamento.

Siamo quindi arrivati ora a questo bel risultato di avere una città del Brasile come Belém senza ragazzi di strada. Ed anche a San Paolo e in altre città maggiori si sono fatti grandi progressi. Ci sono ancora molti adulti abbandonati a se stessi, ma molto meno bambini. Ora il Movimento Repubblica di Emmaus (questo il nome ufficiale dell’organizzazione), a 44 anni dalla sua nascita nel 1971, si configura come un’organizzazione che lavora in chiave di prevenzione assicurando i diritti e l’assistenza ai ragazzi a rischio di Belém prima che finiscano in strada. Sessanta dipendenti e un numero molto più alto di volontari organizzati nei diversi settori si occupano di difesa legale, istruzione ed avviamento al lavoro, monitoraggio del territorio, raccolta fondi. Una volta all’anno in settembre facciamo ancora la raccolta dell’usato. Varie imprese private mettono a disposizione una flotta complessiva di circa 40 camion per un giorno. Ora raccogliamo anche computer dismessi, che i nostri tecnici e i ragazzi dei corsi di informatica rimettono in condizione e rivendo a prezzi molto convenienti. Si impara e si guadagna per sostenersi.

Per certi versi siamo ancora quelli dell’inizio. Di ragazzi a rischio ed in situazioni di sofferenza ce ne sono sempre. E il nostro impegno è di accompagnarli e difenderli. Assicurare i loro diritti. Tenere gli occhi aperti sui molti interessi che in Amazzonia minacciano l’ambiente e le persone.