Dal Brasile un grido per la vita

Dopo aver operato per molti anni nella rete brasiliana, ora suor Gabriella Bottani guida la coalizione internazionale delle religiose. Per dire basta alla tratta in ogni parte del mondo

 

Dal Brasile a Roma. Dalle rotte dei trafficanti di esseri umani a quelle di chi cerca di combattere questo drammatico fenomeno e di stare al fianco delle vittime. È il caso di suor Gabriella Bottani, missionaria comboniana, che da Fortaleza prima e dall’Amazzonia poi – dove si è occupata di tratta anche in occasione dei Mondiali di calcio – si è trasferita sulle rive del Tevere per coordinare il network internazionale delle religiose “Talitha Kum”: una “rete di reti” presenti in 83 Paesi e che coinvolge più di mille religiose nel mondo.

La rete è nata nel 2009 in seno all’Unione internazionale superiore generali (Uisg), nell’ambito di un progetto gestito con l’Organizzazione internazionale dei migranti (Oim) contro la tratta di esseri umani. Oggi è in prima fila nella promozione della prima Giornata internazionale di preghiera e riflessione contro la tratta di persone dell’8 febbraio.

Che cosa porta della su esperienza in Brasile in questa “nuova missione”

Per diversi anni, ho fatto parte della “Rete un grito pela vida”, un network di diversi gruppi di religiose, religiosi e laici che in molte parti del Brasile lottano contro il traffico interno e internazionale di esseri umani e contro tutte le forme di sfruttamenti di tipo schiavistico. Questo impegno mi ha permesso di maturare consapevolezza e competenza sul fenomeno e di conoscere direttamente il dramma di molte vittime.

Quante persone fanno parte della brasiliana e cosa fanno?

Sono involte circa 200 suore di diverse congregazioni e nazionalità, in maggioranza brasiliane, più diversi laici e una decina di padri. L’impegno è molto diverso da zona a zona e varia anche in base alle competenze delle persone coinvolte. C’è la suora che entra nei bordelli e quella che va nelle scuole; c’è quella che insegna all’università e chi è specializzata in Bibbia e approfondisce gli aspetti teologici con gruppi di studio biblico…

Lei concretamente di cosa si è occupata in Brasile e dove?

Innanzitutto, insieme ad altre due suore di altrettante congregazioni, abbiamo deciso di creare, nel 2007, un nucleo di questa rete a Fortaleza, uno dei crocevia del traffico di persone sia interno che internazionale. Fortaleza, infatti, è un’importante meta turistica, dove purtroppo si è sviluppato molto anche il turismo sessuale.

Chi sono i “clienti”?

Principalmente brasiliani, ma anche stranieri e, in cima alla lista, italiani.

Che cosa facevate?

Ci siamo dedicate innanzitutto allo studio per conoscere e approfondire il fenomeno della tratta sia nelle sue diverse dimensioni, sia soprattutto a livello delle cause. Come priorità della nostra azione c’era la prevenzione. A Fortaleza, c’erano altri gruppi e associazioni che a partire da differenti punti di vista – diritti dei bambini-adolescenti, turismo sessuale, organizzazioni femminili… – si occupavano anche di tratta. Anche le diverse pastorali sociali della diocesi hanno un’attenzione a questo tema. La pastorale dei minori, ad esempio, ha un settore specifico dedicato alla prostituzione minorile e ci sono iniziative e progetti dedicati alle donne marginalizzate.

Parlava di cause. Quali le principali?

 

Innanzitutto economiche. Ci sono povertà e miseria che colpiscono particolarmente bambini e adolescenti. Ma ci sono anche grandi diseguaglianze sociali ed economiche. L’idea è che tu sei perché possiedi qualcosa. I media diffondono un sogno di consumo, ricchezza, fortuna, che però per i più è impossibile da realizzare. Poi c’è molta disgregazione familiare.

In questa situazione come si inseriscono e come operano le reti di trafficanti e sfruttatori?

Ci sono situazioni diverse. Esistono reti strutturate nel traffico internazionale, verso Spagna e Italia (le principali), ma anche Svizzera, Olanda e Portogallo, soprattutto per la prostituzione. Spesso ne sono coinvolte donne già sfruttate sessualmente a Fortaleza. Molte sanno che vanno in Europa per lo stesso “lavoro”, ma non immaginano che si ritroveranno in una situazione di schiavitù.

In che modo cercavate di fare prevenzione?

Dal 2009, abbiamo avviato una partnership con le scuole per adulti a Fortaleza e un lavoro con gli assistenti sociali. Abbiamo visitato sistematicamente scuole e gruppi a rischio e collaborato con una congregazione che si occupa di giovani donne rimaste incinte che chiedevano di fare un cammino per uscire dalla prostituzione. Volevamo che la gente aprisse gli occhi, ma cercavamo anche di agire in termini più “politici”.

In che senso?

A partire dal 2010, dopo la creazione del gruppo governativo contro la tratta, abbiamo partecipato al comitato paritario formato per metà da esponenti governativi e per metà dalla società civile, dove si elaborano le politiche pubbliche. In questo contesto cercavamo di promuovere politiche sociali e proposte concrete, per motivare l’impegno da parte dello Stato.

I Mondiali di calcio dello scorso anno hanno portato ulteriormente alla ribalta il fenomeno della tratta e dello sfruttamento sessuale in Brasile, ma anche il vostro impegno per contrastarlo…

Quella dei Mondiali è stata la nostra campagna più importante. Non solo la Rete, ma anche molti altri gruppi vi hanno partecipato. In totale, un migliaio di persone hanno lavorato volontariamente in tutti i campi e per diversi tipi di azione: volantinaggi, sit in, azioni di strada, stand, camminate, fiaccolate, lavoro nelle scuole… Il governo tendeva a minimizzare il fenomeno, ma c’è stato un 42% in più di denunce al numero verde contro lo sfruttamento della prostituzione minorile.

Da Fortaleza all’Amazzonia, sempre traffico, ma diverse modalità di sfruttamento…

Dopo otto anni a Fortaleza, negli ultimi due anni sono stata a Porto Velho, al confine con la Bolivia. Quando sono arrivata lì, il problema della tratta non veniva neppure preso in considerazione né dalle organizzazioni governative né dalle ong. Eppure l’Amazzonia è la regione con il principale numero di rotte sia interne che internazionali. La regione è cresciuta sui cicli di sfruttamento: gomma, miniere, foreste, acqua, suolo (per piantagioni o allevamenti)… Tutto è sfruttato e non ci si rende più nemmeno conto che gli uomini stessi sono sfruttati. Molte ragazzine, ad esempio, vengono prese nelle regioni rurali e portate in città per “studiare”; di fatto, vivono recluse in casa come schiave, lavorando sette giorni su sette, e spesso vengono abusate sessualmente.

Nel vostro impegno contro la tratta avete trovato appoggi o siete state contrastate?

A Porto Velho abbiamo avviato un lavoro di lobbying affinché anche la polizia si sensibilizzasse sul fenomeno. Ma la principale conquista è stata la collaborazione avviata con l’Università federale. La rettrice ci ha molto appoggiato e abbiamo avviato un corso riconosciuto nel piano di studi per formare persone impegnate nella prevenzione della tratta e nella diffusione di una cultura dei diritti e del rispetto della persona. MM