Giulio Rocca martire delle Ande

Giulio Rocca martire delle Ande

Viaggio in Perù, sulle orme del volontario dell’Operazione Mato Grosso, ucciso da Sendero Luminoso nel 1992 a soli trent’anni. La condivisione con i poveri lo aveva avvicinato sempre più a Dio

Salendo da Lima verso la Cordillera Blanca, la catena montuosa più alta del Sudamerica, quando arrivi a Jangas ti senti ormai alle porte del paradiso. Pochi chilometri e, superata Marcarà, finalmente si entra nel parco nazionale dell’Huascaran. Lì, d’improvviso, l’incantevole montagna ti appare in tutta la sua maestosità. Uno spettacolo indimenticabile.

A Jangas, nei pressi di un bivio appena fuori dal centro, una cappella ricorda un giovane italiano, ucciso, nel 1992, a soli trent’anni, dai terroristi di Sendero Luminoso. Si chiamava Giulio Rocca ed era in Perù da quattro anni come volontario permanente dell’Operazione Mato Grosso (Omg), il gruppo missionario avviato da padre Ugo De Censi a metà degli anni Sessanta e che, da allora, ha portato in Sudamerica (oltre al Perù, in Brasile, Ecuador e Bolivia) centinaia di giovani e famiglie che vivono una vita di carità e condivisione con i poveri. A Giulio la vicinanza agli ultimi è costata la vita. Lui, originario di Isolaccia (So), amava le montagne dell’Ancash non meno di quelle della sua Valtellina. Ma non era finito in Perù per scalare, bensì perché, spinto da una severa ricerca interiore, diffidava delle troppe parole vuote e apprezzava chi, come l’Omg , si sporca le mani per gli ultimi.

Una vicenda poco nota, la sua, al di fuori della cerchia dell’Operazione Mato Grosso, ma molto interessante e attualissima, specie nel mese in cui si ricordano i missionari martiri. Basti dire che Giulio, il quale alla partenza per la missione si autodefiniva ateo, avrebbe finito col decidere di entrare in seminario, lasciando la sua ragazza, spedendo una lettera al vescovo di Huari per annunciargli tale decisione, proprio pochi giorni prima che fosse ucciso. Padre Ernesto Sirani, salesiano, in Perù dal 1981, è stato compagno di avventura di Giulio nell’ultimo anno e mezzo a Jangas. Lo incontro nella missione, dove ancora oggi la cameretta di Giulio è rimasta intatta, quasi un museo: proprio come quella di don Daniele Badiali (anch’egli martire dell’Omg, nel 1987), a San Luis. Attacca padre Ernesto: «Giulio era un ragazzo semplice, generoso. Praticava molto la povertà, era francescano nel modo di vestire. Quando c’era da lavorare non si tirava indietro: valtellinese puro». Gli amici di allora lo descrivono come una persona semplice, che amava scherzare e raccontare barzellette. Per sintetizzare la sua figura, padre Ernesto non trova di meglio che leggermi il brano di una lettera spedita da Giulio nell’agosto del 1992, l’anno della sua uccisione. «C’è proprio bisogno di tanto entusiasmo per distruggere questo mondo che va male e per costruirci sopra qualcosa di grande e di bello. Lo stesso entusiasmo che ci porta a dire con forza e con chiarezza il messaggio dell’Omg: “Dare via!” Dare via, dare ai poveri, aiutare gli altri, dando prima le nostre cose e il nostro tempo, poi sempre di più, fino a dare tutto, ma proprio tutto, fino a darsi completamente. Che vuol dire lasciarsi mettere in Croce».

Poi il missionario mi mostra un foglietto, religiosamente conservato come una reliquia: su un lato c’è scritto in stampatello e in grande il nome “Jesus” (Giulio l’aveva scritto durante un ritiro spirituale); accanto c’è la lista della spesa: 4 uova, 10 cipolle, 20 zucche… Tutto attorno il biglietto è sporco di sangue: «L’aveva addosso al momento dell’uccisione. È una specie di sintesi della sua vita: l’amore per Cristo e la concretezza dell’amore per i poveri». Tra gli impegni affidati a Giulio dall’Omg c’era, infatti, oltre quello di supervisionare i ragazzi della cooperativa, quello relativo alle compere nella vicina città di Huaraz. Tutte le mattine partiva con la sua jeep: in mano il block notes, il cappello in testa, sigaretta in bocca, a tracolla la borsa, sempre in jeans e sandali. «Quando arrivava al mercato le venditrici se lo contendevano perché era… un buon cliente. Lui, allora, per non scontentare nessuno comprava i fagioli di qui, la farina di là…».

I terroristi di Sendero Luminoso, conoscendo il suo attivismo, non lo vedevano di buon occhio. Nell’arco di pochi mesi ricevette quattro “visite” da parte dei terroristi proprio qui, nella casa di Jangas. L’ultima volta è quella fatale. Racconta padre Ernesto: «Ero andato alla festa di chiusura dell’anno oratoriano in una località vicina. Giulio ci aveva fatto recapitare la verdura, con un biglietto: “Sono stanco, domani vi raggiungerò”. Il giorno dopo, alle otto del mattino, ci arrivò la tragica notizia. Stavamo facendo un momento di preghiera, con l’attualizzazione della parabola del tesoro nascosto, me lo ricordo bene. Il tesoro era simboleggiato da un crocifisso che la sera prima era stato tirato a lucido… Proprio in quel momento arrivò la notizia: fu immediato associare la figura di Giulio a colui che cercava il tesoro della vita. Feci inginocchiare tutti i ragazzi, li feci pregare per Giulio. Poi scendemmo in fretta per andare all’obitorio di Huaraz».

Perché i terroristi di Sendero avessero l’Omg nel mirino è presto detto. In quanto organizzazione marxista-leninista puntavano alla rivoluzione armata. Ai loro occhi un organismo di volontariato come l’Omg, che si spendeva (e si spende) per i poveri addormentava le coscienze e dunque faceva un gioco contrario al loro. «“Dovete lasciarli senza mangiare, così si liberano lo stomaco”, mi dissero apertamente i terroristi durante una visita. “Voi siete contro la rivoluzione, la vostra religione è oppio dei  popoli, con la carità che fate siete un freno alla nostra rivoluzione per cui vi dobbiamo eliminare”». Discorsi diretti, senza giri di parole. «A noi dell’Omg non hanno mai detto esplicitamente di lasciare il Paese. In un’occasione, però, a Giulio rinfacciarono di aver avvisato in tale senso il padre (cioè io). Lui si infuriò perché non sopportava le menzogne». Riprende fiato, padre Ernesto, mentre gli occhi si fanno lucidi. Ricordare gli costa, eccome. «In un’altra occasione – ero presente – ci chiesero cosa pensassimo della violenza. “Per l’amor di Dio!”. Giulio saltò subito in piedi, pur avendo davanti uno col mitra in mano. “Noi siamo contro la violenza, sia che venga da voi o dalla polizia. Perciò, quando entrate in questa casa le armi non le vogliamo vedere, perché qui ci sono donne e bambini”».

Tipo combattivo, Giulio. Specie quando c’erano di mezzo poveri e ingiustizia. «Diceva: “Non ci ammazzeranno mica tutti, bisognerà pure opporsi. Non dobbiamo accettare supinamente”. Giulio si sentiva battagliero, mentre loro volevano gente sottomessa, non come lui che gli teneva testa». Per quello l’uccisero. E fu un momento di grande smarrimento per l’intera Omg. «Quando accadde il terribile fatto, il vescovo, un salesiano spagnolo, si trovava fuori dal Paese. Furono giorni tremendi: padre Ugo doveva decidere se continuare a stare o andarsene, ma, mancando il vescovo e pure l’ispettore dei salesiani a Lima, cercava un’autorità con cui confrontarsi in quella fase di grande difficoltà. Il giorno dopo l’uccisione di Giulio venne fra noi il vescovo di Huari, monsignor Dante Frasnelli, vecchio amico dell’Omg; radunammo nel refettorio della casa i volontari presenti ed egli chiese loro se volevano continuare. Essi risposero con decisione: “Sì, andiamo avanti, monsignore”».

L’uccisione di Giulio avviene nel 1992, ma lo stillicidio di violenze e minacce era cominciato ben quattro anni prima. «Nel 1988 ci sono state le prime avvisaglie. Mi ricordo una sera improvvisamente un boato si udì in tutta la vallata: era un traliccio dell’energia elettrica che veniva fatto saltare, così sarebbe venuta a mancare la luce. Abbiamo assistito varie volte a questo genere di attentati. Dopo qualche anno, nel 1991 la tensione salì e quelli di Sendero ammazzarono i due frati polacchi, Michal Tomaszek e Zbigniew Strzalkowski, e, poco dopo, don Sandro Dordi, beatificati il 5 dicembre scorso. Io e Giulio andammo al loro funerale: Pariacoto, dove essi operavano, è a tre ore di macchina da qua».

Dopo quel tragico fatto, il clima si andò via via facendo sempre più pesante. Racconta padre Ernesto: «Io e Giulio scherzavamo un po’ per farci animo reciprocamente, dicendo che, se dovevamo morire, non doveva accadere assieme: non avremmo dato ai terroristi quella soddisfazione. La gente era molto spaventata, anche perché ovunque, sui muri, Sendero scriveva frasi tipo “Guai a chi parla” o “Morte agli spioni”. Insomma, il clima era di terrore».

Un altro particolare interessante: «Il nostro vescovo andava in giro con la guardia armata. Giulio lo prendeva in giro: “Sarebbe meglio che si facesse curare dallo Spirito Santo, non dagli uomini”, lo rimproverava amabilmente. Giulio non era il tipo da mandarle a dire. «Quando il vescovo veniva a pranzo da noi per una festa importante, Giulio si scatenava. Era un tipo aperto e Giulio gli apriva il cuore. Inizialmente era critico verso la Chiesa, poi è cambiato. Di certo era un ragazzo esigente con se stesso e che ha cercato moltissimo il senso della vita. Me lo ricordo ancora come ora: la sera, con la tazza di caffé e la sigaretta, chiacchierava, instancabile, con gli altri volontari: spesso critico sulla Chiesa e sui preti, ma perennemente in ricerca».

Questo lo rende ancora oggi molto popolare fra i volontari dell’Omg. Conferma padre Ernesto: «Il campo di lavoro che si tiene ogni anno in Italia in sua memoria è, in assoluto, il più frequentato». In tutte le case dell’Operazione, poi, la sua foto è ben visibile, accanto a quella di padre Daniele, ai lati del crocefisso. E anche se il processo di beatificazione di Giulio non è partito (quello di padre Daniele ha concluso la fase diocesana), ogni giorno i volontari invocano entrambi come «martiri della carità».