Missione dietro le sbarre

Missione dietro le sbarre

A Macapá, capitale dello Stato brasiliano dell’Amapá, il Pime è presente dal lontano 1948. Oggi l’attività missionaria si svolge, oltre che nelle parrocchie, in diversi ambiti sociali, fra i quali anche il carcere

 

Anche nel cuore dell’Amazzonia ci sono molte periferie. Quelle esistenziali e quelle sociali, di cui parla spesso Papa Francesco. Padre Luigi Carlini del Pime, 70 anni, le conosce bene: è responsabile della pastorale carceraria della diocesi di Macapá. Si è meritato negli anni l’appellativo bonario di malandrão, malandrino. Un po’ per la sua mole fisica, «un po’ – come dice lui – perché faccio il duro come loro».

Padre Luigi, qual è la fotografia della popolazione carceraria dello Stato federale di Amapá?

«Si tratta di 2.600 persone nel carcere maschile e poco più di un centinaio in quello femminile. Entrano settanta o ottanta persone la settimana, una ventina sui 18-20 anni. È la più grande scuola negativa che uno possa immaginare».

In che senso?

«Lo Stato e la popolazione non dimostrano alcun interesse nel recupero del colpevole. Il carcere è solo vendetta e punizione. I detenuti vivono in uno stato costante di soggezione e minaccia, sono spesso picchiati e torturati. Sono considerati scarto. E questo sistema oppressivo li incattivisce ulteriormente».

Sono accuse pesanti nei confronti delle autorità e chiamano in causa le organizzazioni per i diritti umani…

«Davvero? C’è di più. La tortura per esempio. È una prassi regolare nel caso di fuggitivi ripresi, di chi ha commesso un crimine contro i parenti di un poliziotto o, semplicemente, per il gusto sadico di alcune guardie carcerarie senza umanità».

Come vengono praticate le torture?

«È molto rudimentale: battiture fino a rompere le ossa, polvere di peperoncino spruzzata negli occhi o nell’ano, oppure i prigionieri vengono ammanettati per lunghi periodi l’uno all’altro o alle sbarre delle celle. Sono dovuto intervenire personalmente in diversi casi».

Che cosa c’è dietro comportamenti di questo tipo?

Un cuore indurito, insensibile sia alla sofferenza dei carcerati che delle loro vittime fuori, l’ipocrisia generalizzata. Impongono umilianti ispezioni fisiche alle donne, anche anziane, che vogliono visitare i parenti in carcere per evitare l’introduzione di droga dietro le sbarre; ma la polvere scorre a fiumi. Chi va e viene dalle prigioni se non gli stessi secondini? Ci sono detenuti che ho visto sani in prigione ed ora sono matti. Alcuni a causa degli abusi sessuali subiti».

Che cosa propone la pastorale carceraria?

«Il nostro motto è: “Un mondo senza carceri”. Non in senso letterale, perché sappiamo che questo non è possibile e chi ha sbagliato deve comunque essere corretto e sottoposto al corso della giustizia. Pensiamo però che il rispetto della persona sia sempre un valore. Non siamo favorevoli ad istituzioni che lo ignorano o deliberatamente lo calpestano. Vogliamo il recupero dell’individuo, che passa attraverso il processo di riconoscimento della colpa e riconciliazione delle parti. Questo non è attualmente nei piani e nella prassi del governo e dell’opinione pubblica brasiliana».

Senza recupero cosa succede?

«Succede che fuori dal carcere uno non sa da dove ricominciare quindi torna a delinquere. Ha tre possibilità: tornare nel suo gruppo se c’è ancora, accettare dei lavoretti per qualche boss o creare la sua banda. Naturalmente, prima o dopo, se non è morto finisce di nuovo dentro. Succede nel 70% dei casi».

Tu cosa puoi fare in concreto?

«Posso contare su un accesso abbastanza facile e sicuro ai padiglioni e questo mi permette di avere anche dei colloqui personali. Inoltre, posso parlare a gruppi di carcerati se vengono per la Messa o la catechesi. Imposto sempre questi momenti come invito alle persone a rivedere la loro vita, il suo valore, le possibilità che può offrire. Una sera, a un distributore di benzina, un tizio mi ha riconosciuto e mi ha detto che un giorno quelle poche parole gli avevano offerto una direzione per quando sarebbe uscito. La mia idea è che, come cristiani, siamo anzitutto discepoli prima ancora che maestri o giustificati da pratiche e riti. Quando posso, infine, cerco di aiutare e fare da tramite con le famiglie. Il crimine è frutto in gran parte dei nostri rapporti sociali sbagliati e dell’economia basata sull’interesse personale e sull’avidità. Se proviamo a decidere che la priorità è occuparci degli altri e cercare di farli felici, allora le cose cambiano davvero».