Riconciliazione la missione di oggi

Riconciliazione la missione di oggi

Le sfide per i gesuiti nel mondo contemporaneo e il “suo” Venezuela paralizzato da una gravissima crisi sociale e politica: parla il nuovo padre generale della Compagnia di Gesù, Arturo Sosa Abascal

 

Viene da un Paese dove lo scontro sociale oggi è nelle piazze, una realtà ridotta alla fame da scelte politiche sbagliate. Ma lui invita ad allargare lo sguardo a tutto il mondo a partire dalla categoria della riconciliazione. Sessantotto anni, venezuelano, dall’ottobre scorso padre Arturo Sosa Abascal è il nuovo padre generale dei circa 17 mila gesuiti presenti oggi nel mondo. Primo latinoamericano a guidare la Compagnia di Gesù, proprio mentre un gesuita argentino è il primo Papa della storia. Lo incontriamo a Milano, dove su invito della Fondazione Carlo Maria Martini ha ricordato il magistero sociale dell’ex arcivescovo di Milano, altro suo illustre confratello.

Padre Sosa, quali sono oggi le frontiere più importanti per la missione dei gesuiti nel mondo?

«La nostra ultima Congregazione generale le ha sintetizzate molto bene nella parola riconciliazione. Viviamo in società profondamente rotte, ferite, e dunque il compito del gesuita è innanzi tutto quello di costruire ponti. Si tratta di una sfida che ovviamente assume volti diversi a seconda delle situazioni: ci sono quelle più critiche, segnate dalle guerre e dai conflitti razziali, ma c’è anche la situazione dell’Europa che oggi è tentata di chiudersi dentro a nazionalismi un po’ ciechi. Ecco: in tutte queste realtà c’è sempre bisogno di riconciliare. Prima di tutto riconciliare l’umanità con se stessa, tanto nella vita personale quanto in quella sociale. Far percepire l’umanità come una manifestazione variegata del volto di Dio. Poi c’è la riconciliazione con il Creato, altra dimensione molto importante: prendersi cura della “casa comune” per salvare e moltiplicare la vita sulla terra. E poi queste due dimensioni, insieme, rendono possibile una terza riconciliazione: quella con Dio. Riconciliarsi con gli uomini, con il Creato e con Dio: sono tre dimensioni che oggi non si possono separare l’una dall’altra».

Nella Compagnia di Gesù, sono sempre più numerosi i gesuiti nati in Asia e in Africa. Come la loro presenza sta cambiando la vostra congregazione?

«A partire dal Concilio Vaticano II la Compagnia di Gesù ha compiuto uno sforzo sistematico e profondo per l’inculturazione: tanti gesuiti europei e americani sono partiti per l’Africa, l’Asia e l’America Latina senza l’intenzione di riprodurre la propria cultura. Sono stati generosi nell’inculturarsi e nel seminare nuove vocazioni. Così è nata una Compagnia di Gesù che oggi è veramente multiculturale: non bisogna cambiare cultura per diventare gesuiti. Come – del resto – non bisogna cambiare cultura per essere cristiani. Tutto ciò, ovviamente, senza perdere la nostra identità come realtà specifica impegnata nella missione della Chiesa. Però ci manca un ulteriore passo: dobbiamo ancora accettare fino in fondo la possibilità e la sfida dell’interculturalità».

In che senso?

«Non è la stessa cosa accettarci come multiculturali e condividere sul serio – nelle nostre case e nelle nostre istituzioni – la prospettiva dell’incontro tra culture, nella logica dei vasi comunicanti. L’universalità non è solo fare spazio all’altro, ma arricchirci mutuamente della diversità. In questo momento storico sarebbe un segno molto importante per il mondo, rappresenterebbe la nostra risposta alla globalizzazione. Perché la globalizzazione di oggi è un fenomeno omogeneizzante: cerca continuamente di uniformare, rispondendo a logiche e direttive che sono transnazionali. Non rispetta la diversità: impone il proprio stile, i propri modelli di consumo. L’universalità, al contrario, nasce dallo scambio e arricchisce davvero tutti. L’universalità ci cambia, ma senza per questo farci perdere la nostra identità. Perché l’inculturazione non è contraria all’incontro, tutt’altro: è la sua condizione di possibilità. Se non sei consapevole della tua cultura non puoi arricchire te stesso né tanto meno gli altri. Sarà l’universalità e non la globalizzazione omogeneizzante a renderci una sola umanità, che si riconosce ed è orgogliosa delle proprie differenze».

Lei è originario del Venezuela, un Paese che da mesi ormai attraversa una gravissima crisi sociale e politica. Vede delle possibili vie d’uscita?

«La situazione è molto difficile, molto polarizzata. La seguo accompagnando la riflessione che stanno compiendo la Chiesa venezuelana e la comunità locale dei gesuiti: un processo attento di analisi e di discernimento, prendendo una posizione molto chiara in favore della gente. Perché la questione fondamentale è mettere le persone, il popolo, davvero al centro delle preoccupazioni e non, invece, la lotta per il potere politico. E allora come andare incontro alla soluzione dei problemi elementari che in Venezuela oggi toccano tutti: il cibo, le medicine, la casa, un’istruzione di qualità? Solo se poniamo questo al centro, poi si possono cercare insieme le strade per far sì che vi sia una politica in grado di riprendere la produzione, la distribuzione dei prodotti e che abbia un consenso fondamentalmente democratico. Perché la Chiesa oggi in Venezuela spinge nella direzione di una crescita della democrazia anziché metterla a rischio, come invece sta avvenendo».

Il Papa invita anche nel contesto polarizzato del Venezuela a gettare ponti.

«La lettera del segretario di Stato vaticano Pietro Parolin, scritta a nome del Papa, contiene punti estremamente chiari: bisogna far partire la riconciliazione del Venezuela dalla liberazione dei prigionieri politici; bisogna prendere misure d’emergenza per risolvere le questioni concrete legate alla sopravvivenza della gente; bisogna creare le condizioni per svolgere elezioni davvero democratiche. Questi punti sono la base di tutto: finché non li si affronta il Paese non può andare avanti».

Lei però sottolinea spesso anche il ruolo giocato da un’economia interamente incentrata sul petrolio nel ridurre il Venezuela in queste condizioni.

«Questo è il cambiamento strutturale necessario al Paese. Oggi ci sono misure di emergenza immediate da adottare, perché siamo di fronte a un dramma sociale, con la gente che non ha neppure da mangiare. Ma guardando a medio termine sì, occorre superare la cultura e la realtà di un’economia che vive di rendita, dove tutto si basa sulla vendita di una sola risorsa naturale. È da un secolo che in Venezuela il petrolio ha sostituito l’agricoltura e l’industria come fonte di ricchezza: ci siamo convinti che aver sotto terra il petrolio significasse di per sé ricchezza. Ma la ricchezza non viene mai dalle risorse naturali, ma solo dalle risorse umane: per questo occorre ricreare una vera economia produttiva. Ma è un problema che si potrà affrontare solo dopo aver risolto l’emergenza».

Che cosa dice questa crisi del Venezuela al resto dell’America Latina? A lungo Hugo Chávez aveva indicato il Paese come un modello per la regione.

«Proprio per le sue peculiarità, appariva evidente che il Venezuela non poteva essere un modello esportabile al resto dell’America Latina. Quando Hugo Chávez parlava del suo socialismo del XXI secolo propagandava un modello fondato sulla rendita. Il che era una contraddizione nei suoi stessi termini: non è possibile un socialismo (ma nemmeno un capitalismo) fondato interamente sulla rendita. Con in più un’aggravante: se le entrate petrolifere sono i maggiori ricavi ed è lo Stato a riscuoterli e redistribuirli, anche il rapporto tra Stato e società si ammala. I risultati sono sotto gli occhi di tutti oggi in Venezuela. Non generalizzerei, però, il discorso sull’America Latina: altri Paesi hanno problemi diversi perché sono economie di tipo molto diverso».

Lei ha insegnato in una facoltà di Scienze politiche e ha sostenuto che anche le scienze sociali oggi sono un luogo della missione. Perché?

«Non solo le scienze sociali, ma tutte le scienze come attività umane importanti. Fin dalla sua fondazione la Compagnia di Gesù ha avuto la vocazione a coltivare il pensiero e la ricerca. Mi piace utilizzare l’immagine delle due gambe: una è la profondità spirituale, la sequela di Dio come fatto personale, ma c’è anche l’altra gamba, la capacità di pensare il mondo in tutte le sue dimensioni. Non è possibile immaginare un gesuita senza la ricerca e per questo diciamo che il nostro è un apostolato intellettuale. Utilizziamo tutti gli strumenti che sono nelle mani dell’uomo per poter portare la Buona notizia del Vangelo».

Che cosa vede nel futuro della Compagnia di Gesù?

«Vedo una Compagnia che entra in rete con tante altre istituzioni, con tante altre persone, capace di lavorare con gli altri. Una Compagnia che non vuole fare da sola».

C’è stata questa tentazione in passato?

«Credo ci sia stata più qui in Europa che in altre parti del mondo. Ma oggi sappiamo che la possibilità per noi gesuiti di contribuire all’umanizzazione della storia si gioca proprio nella capacità di lavorare con gli altri. In questo senso vedo una Compagnia viva, che ha qualcosa da dire e che si arricchirà di queste collaborazioni».