Teologia indigena

Teologia indigena

Dopo anni di emarginazione, il contributo delle culture indios latinoamericane alla spiritualità e alla vita della Chiesa è stato riconosciuto. Con una rilettura della “vita piena” evangelica

 

Risponde padre Nello Ruffaldi, missionario del Pime in Amazzonia

Che cos’è la teologia indigena?

Con teologia indigena indichiamo il contributo dei popoli amerindi alla Chiesa e alla società. Oggi si parla molto di “qualità della vita”, concetto che i popoli delle Ande chiamano sumak kawsay e che è entrato nelle Costituzioni di Bolivia ed Ecuador. Potrebbe essere tradotto con “vita piena”, riecheggiando le parole di Gesù: “Io sono venuto perché tutti abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza” (Gv 10,10). Di fronte alle proposte di una società neoliberale, la spiritualità indigena mostra il cammino per una vita di qualità, fondata sulla semplicità e la sobrietà. Sapendo che siamo parte di un tutto, veniamo educati all’umiltà. Nella misura in cui le nostre comunità svilupperanno una relazione più intensa con la Madre Terra, crescerà il grado di semplicità della nostra vita.

Come e quando è nata?

La teologia indigena è nata negli anni 80 per iniziativa di un gruppo di sacerdoti e religiose indios, soprattutto di Messico e Guatemala, che si erano sentiti spogliare della loro cultura durante gli anni della formazione. In quel periodo, l’obiettivo era infatti “civilizzare” gli indios, integrandoli nella cultura nazionale, con il conseguente oblìo di tradizioni e lingue. Tuttavia, con il “rinascimento” dei popoli indigeni e il mutato atteggiamento delle Chiese nei confronti delle culture, questi religiosi conclusero che non era necessario rinunciare alle proprie origini per essere cristiani e consacrati, e sentirono il bisogno di recuperarle. Molti di loro ripresero i contatti con parenti e amici e furono “re-iniziati” alle tradizioni del loro popolo, proponendo un processo di rinnovamento delle Chiese.

Come dialoga con la teologia classica?

La teologia esprime l’esperienza di Dio, la quale si dà nella storia e nella cultura di ciascun popolo: il Verbo si è fatto carne nel ventre di Maria, lo Spirito manifesta il mistero di Dio passando attraverso le culture. «Noi religiosi indigeni – spiega il padre zapoteca messicano Eleazar López – siamo contesi da un duplice amore: per il nostro popolo e per il progetto della Salvezza. Siamo, tuttavia, convinti che è possibile conciliarli. Le speranze profonde del nostro popolo sono le stesse di Cristo. Anzi, molte proposte del Vangelo sono meglio espresse dalla nostra cultura, dalla purezza di cuore dei poveri. Crediamo che il dialogo teologico non solo beneficherà i popoli indigeni, ma arricchirà le Chiese che, attraverso gli indios, potranno riprendere contatto col nucleo del messaggio evangelico e della tradizione cristiana».

Quale contributo offre alla Chiesa?

La Chiesa e la società necessitano del contributo indigeno. Per l’indio «il divino è padre e madre, integrati in un unico soggetto». La natura, gli animali e le persone sono interconnessi: la Terra è madre e gli animali fratelli. La vita è celebrazione, ricca di tanti elementi che, nei secoli, sono stati dimenticati o marginalizzati dal cristianesimo. Il maggior contributo della teologia india consiste nel modo di concepire la società. Per il padre Atiliano Ceballos Loeza «uno dei grandi contributi che le nostre comunità indigene possono offrire è la critica al sistema neoliberale dominante. Noi abbiamo una cultura della vita e non della morte. De-crescita, de-urbanizzazione, de-colonizzazione, de-costruzione dei saperi: è il grido che sale da ogni angolo della nostra “Patria Madre Grande”».

E allo sviluppo in America Latina?

Nel V Incontro della Teologia india a Manaus i rappresentanti dei popoli indigeni del Brasile – karipuna, galibi-marworno, makuxi, wapixana, xukuru, guarani, aikewar – hanno effettuato una rilettura della loro storia, sottolineando che Dio li ha sostenuti nella lotta per la conquista dei diritti. Per Domingo Llanque, teologo aymara del Perù, «Dio si è messo al fianco dei popoli indigeni, arricchendo le loro concezioni teologiche e i loro simboli. Siamo convinti che la rinnovata presenza indigena nelle nazioni e nelle Chiese dell’America Latina rappresenti un’oasi di fede e spiritualità che può irrorare il mondo in un momento in cui l’aridità delle strutture sembra prevalere. Noi siamo popoli della speranza. Abbiamo dimostrato che non siamo un problema, ma la base per la soluzione di molti problemi».