Trump: la prudente attesa dell’America Latina

Trump: la prudente attesa dell’America Latina

Dal Messico all’Argentina, dalla Bolivia di Evo Morales al Cile di Michelle Bachelet le reazioni latino-americane alla vittoria del «candidato indesiderato» alla Casa Bianca. La grande incognita sul futuro dei rapporti con Cuba, su cui in campagna elettorale Trump è stato sibillino

 

Anche in America Latina la vittoria di Donald Trump ha sorpreso come un fulmine a ciel sereno. Non é facile comprendere la logica anglosassone che guida il processo elettorale statunitense e non è semplice la decodificarzione dell’attualità politica della grande potenza. Certamente, le esternazioni e le intemperanze del milionario candidato non gli hanno attirato simpatie in questa zona del mondo. Tutt’altro: dal Messico alla Terra del Fuoco si sperava, pur con vari distinguo, in una vittoria della più prevedibile Hillary Clinton.

La prima domanda da farsi è se avrà davvero qualche influenza nella regione latinoamericana la gestione del nuovo inquilino della Casa Bianca. In realtà, né l’agenda della Clinton né quella di Trump (e neppure quella di Obama negli ultimi otto anni) hanno dato uno spazio speciale all’America Latina. Fatta eccezione per i rapporti di vicinanza col Messico (col quale esiste un contestato trattato di libero commercio che ingloba anche il Canada), per la necessita – quasi di routine – di rispondere alle incontinenze verbali del presidente di turno in Venezuela, per la normalizzazione delle relazioni con Cuba e l’appoggio al processo di pace in Colombia, non si registrano passi di rilievo nei rapporti con i governi latinoamericani. Il che, in genere, da queste parti non è visto come un fatto negativo, se si tiene conto che fino ai primissimi inizi di questo secolo, la regione era considerata “il retro-cortile” (patio trasero, in spagnolo) degli Stati Uniti. Un’area da mantenere tranquilla e sotto controllo. L’arrivo di vari governi di sinistra (o tendenzialmente tali) agli inizi di questo secolo ha spezzato l’egemonia conosciuta come Dottrina Monroe (dallo slogan del presidente omonimo che nel 1823 dichiarava: “l’America agli americani”, escludendo cosí ogni presenza straniera sul piano continentale). In questi anni la regione, con alti e bassi, ha preso una propria strada autonoma e non ha bisogno, come nel passato, del placet di Washington per determinare ministri o stabilire nuove prioritá commerciali. L’attivo rapporto commerciale con Cina e Russia è in tal senso eloquente. I recenti cambiamenti di governo in Brasile e, soprattutto, in Argentina non sono stati motivo di grandi riavvicinamenti, quanto di una maggiore normalità delle relazioni.

In merito al nuovo inquilino della Casa Bianca, chi forse ha riassunto meglio il pensiero dei leaders latinoamericani, poco prima dell’8 novembre, é stato il presidente del Perú, Pedro Pablo Kuczynski: «Credo che se le elezioni fossero in America Latina, Trump non otterrebbe voti». E non si tratta certo di un politico qualificabile come di sinistra. Fatto sta che commenti di peso a favore del milionario outsider non sono apparsi. Non li avrebbe fatti certo il presidente messicano, Enrique Peña Nieto, che una settimana dopo essersi riunito col candidato repubblicano ha ammesso essersi trattato di un errore politico e ha silurato il ministro artefice della riunione. Il messaggio inviato dopo i risultati delle elezioni ha piú unsapore di correttezza formale che di sostanza.

Il presidente argentino Maurizio Macri, che conosce Trump per aver lavorato con lui quando aveva 24 anni, ha diplomaticamente ammesso che preferisce “le relazioni e le reti, più che la creazione di muri”. Solo nella fase finale della campagna elettorale ha dato istruzioni per prendere contatto con lo staff del nuovo presidente, dato che le sue carte le aveva giocate nella speranza di vedere sedere alla Casa Bianca Hillary Clinton. Piú ironico il presidente boliviano Evo Morales, che nel suo indirizzo di saluto ha invitato Trump a lavorare contro il “maschilismo ed il razzismo”. Sebbene Hillary Clinton non raccogliesse le simpatie del presidente della Bolivia, e meno ancora quelle del suo collega dell’Ecuador, Rafael Correa, chiaramente la si preferiva al milionario newyorkese. Il venezolano Maduro ha inviato indirettamente le sue felicitazioni in un messaggio comunicato al segretario di Stato, John Kerry. Il ministro degli esteri cileno, Heraldo Muñoz si é riferito piú chiaramente alle incognite rappresentate dal nuovo presidente statunitense; tra l’altro la Clinto era legata da un’amicizia personale con la presidente Michelle Bachelet. Le autoritá di governo si sono affrettate a tranquillizzare i mercati locali in merito a possibili ripercussioni nel caso Trump confermi la decisione di rescindere o rivedere i trattati di libero commercio firmati con vari Paesi della regione.

Cuba ha reagito con un messaggio stringato al nuovo presidente, maggiore spazio sulla stampa l’hanno avute le esercitazioni militari annunciate dal governo dell’Avana. Quello dei rapporti con Cuba è forse il tema piú delicato per l’America Latina: la Casa Bianca rivedrà il processo di normalizzazione dei rapporti con l’isola? Trump è stato sibillino: desidera vedere i risultati prima di decidere. L’embargo commerciale, nella sua parte sostanziale, è ancora vigente: sono state allentate solo alcune restrizioni. Trump fará marcia indietro? In verità sa che non deve molto agli esiliati cubani nel suo Paese: la sua vittoria é dipesa dal voto bianco e del Mid-West, piú dalla conquista di Ohio, Pennsylvania, Michigan e Wisconsin, che dalla vittoria in Florida.

Siamo appena agli inizi dei rapporti di questa regione con Washington. Nel giro di un anno sono cambiati profondamente gli scenari, sia qui che negli Stati Uniti. È presto per fare previsioni al di la di una prudente attesa.