Un salto in Messico

Un salto in Messico

Lungo i binari della “Bestia”, in parrocchia o con gli indigeni, l’esperienza missionaria di due brasiliani nella prima edizione di “Jump”

 

Mentre gli Stati Uniti pianificano la costruzione di un muro ai suoi confini, c’è chi, in Messico, propone il salto della missione.             Jump in inglese vuol dire proprio “salto”, ma in portoghese è una sigla che sta per Juventude Unida em Missão Permanente, giovani uniti in missione permanente. L’idea è nata in Brasile da alcuni missionari del Pime ed è semplice: permettere ad alcuni giovani di vivere un’esperienza di fede e missione in un altro Paese.

Da oltre vent’anni in Italia esiste il percorso di “Giovani e missione”, che dà la possibilità di trascorrere un mese all’estero in una delle missioni del Pime. Ora l’esperienza si sta replicando anche in altri Paesi e, chissà, un giorno anche l’Italia potrebbe diventare una meta e non più solo un punto di partenza per una esperienza missionaria.

Jump, l’esperienza missionaria dei giovani brasiliani all’estero, è un’occasione per fare un “salto” di qualità: confrontarsi con l’estero ed arricchirsi della prassi della fede in altri Paesi. «L’iniziativa è partita quest’anno e le mete proposte per ora sono due: Costa d’Avorio e Messico», racconta padre Ferdinand Komenan Kouadio, missionario del Pime a La Concordia, nello Stato messicano di Guerrero. «L’esperienza in Messico vuole essere una porta aperta dove convergono ragazzi provenienti da altre missioni del Pime – spiega padre Ferdinand -. A gennaio abbiamo ospitato i primi due giovani brasiliani, e in futuro vorremmo dare questa possibilità anche a ragazzi provenienti dagli Stati Uniti».

Fra visite ai villaggi insieme ai missionari del Pime, giochi con i bambini, incontri con le persone e condivisione, il mese trascorso in Messico è volato via veloce per Mario, 34 anni, e Joao, 22, entrambi provenienti dallo Stato di Londrina, nel Sud del Brasile.

«Subito dopo il loro arrivo a Città del Messico – racconta padre Ferdinand, che li ha accompagnati – siamo andati a visitare le piramidi del sole e della luna a Tehotihuacan. Le piramidi sono parte del patrimonio dell’umanità e l’espressione delle civiltà precoloniali dell’America Centrale. Con la tappa successiva abbiamo compiuto un salto dalle bellezze del Messico ai suoi problemi, andando a visitare la nuova missione del Pime nella diocesi di Ecatepec, alla periferia di Città del Messico».

Nel mese di maggio del 2016, padre Deodato Mammana e padre Damiano Tina del Pime hanno inaugurato una presenza nel quartiere periferico della capitale, costruito sui binari su cui transita “La Bestia”, il treno che trasporta i latinos che provano a entrare clandestinamente negli Stati Uniti. L’idea è nata dalla provocazione di Papa Francesco ad “uscire” verso le periferie del mondo, fisiche ed esistenziali.

«I nostri missionari lavorano fra gli indigeni nahuatl venuti dai loro villaggi alla ricerca di una vita migliore – spiega padre Ferdinand -. Il quartiere dove vivono si chiama Cartolandia e il nome dice tutto: traduce la precarietà delle case di questa baraccopoli. Alcuni non sanno neppure lo spagnolo e non hanno neanche l’atto di nascita. Per il governo messicano questi indigeni non esistono: non sono registrati all’anagrafe e non vengono considerati nei programmi sociali.

I nostri missionari stanno facendo una campagna per registrare gratuitamente coloro che non hanno i documenti. Si sta promovendo anche un corso base di spagnolo per adulti e ragazzi. Insomma, nel Messico attuale, bisogna andare a Cartolandia per vedere quanto grande è il divario fra le classi sociali».

Ed è esattamente quello che hanno fatto Mario e Joao, i ragazzi brasiliani di Jump.«Sono rimasti senza parole per ciò che hanno visto lungo la ferrovia di “La Bestia” – racconta padre Ferdinand -. Nei loro occhi sono rimaste le case dove vivono i nahuatl, i vestiti tipici delle donne indigene, ma anche l’accoglienza dei parrocchiani, con cui abbiamo avuto la possibilità di condividere il pranzo». A Cartolandia i missionari del Pime lavorano e vivono con un profilo molto basso: poveri fra i poveri. Non hanno l’auto, né una canonica. Si spostano in taxi e occupano due stanzette nel seminario diocesano. In una zona di pericolo costante, dove si viene assaliti per un cellulare, l’austerità salva la vita. Il Pime gestisce una cappella, e per il momento non c’è l’intenzione di assumere l’incarico di una parrocchia.

«“Prima ci sediamo, dopo stendiamo le gambe”, così ci insegna la saggezza africana», sintetizza con un sorriso padre Ferdinand, originario della Costa d’Avorio, che prosegue il suo racconto dell’esperienza Jump: «Dopo Ecatepec, ho accompagnato Mario e Joao alla Basilica di Nostra Signora di Guadalupe. Lì abbiamo fatto un piccolo pellegrinaggio, per affidare l’esperienza di missione alla “Signora del Cielo”. Con tutto quello che succede in Messico è molto importante cominciare con il piede giusto!».

Il viaggio dei ragazzi brasiliani è proseguito verso Ayutla de los Libres, il municipio dove si trova La Concordia, dove il Pime opera tra gli indigeni miztechi. «La nostra presenza missionaria in Messico si muove specificamente e principalmente nell’ambito indigeno – chiarisce padre Ferdinand -. Alla Concordia si lavora nella pastorale indigena-contadina con i miztechi, mentre a Ecatepec si sta sviluppando una pastorale di periferia con attenzione speciale ai nahuatl. Abbiamo fatto questa scelta per dare un’identità precisa alla nostra missione, senza disperderci in troppe attività».

Il bilancio della prima edizione di Jump in Messico è più che positivo: « Abbiamo avuto la fortuna di incontrare ragazzi in gamba, felici di fare questa esperienza e anche noi siamo stati contenti della loro presenza. Non hanno avuto problemi a rimboccarsi le maniche e sporcarsi le mani, rendendosi disponibili a fare di tutto. Anche se, alla fine non è tanto il “fare” qualcosa in missione che conta, quanto piuttosto la testimonianza di fede. E la loro testimonianza l’hanno davvero data».