Myanmar, i militari e il nuovo parlamento

Myanmar, i militari e il nuovo parlamento

Dopo la storica seduta inaugurale di ieri a Naypyidaw il cammino per voltare pagina davvero resta lungo. E passa anche dal ricambio generazionale all’interno della Lega nazionale per la democrazia di Aung San Suu Kyi

 

L’apertura del nuovo parlamento – risultato dal voto plebiscitario dell’8 novembre 2015 che ha visto premiati i partiti che hanno guidato l’opposizione al controllo militare – ha riportato ieri l’attenzione internazionale sul Myanmar, uscito solo da cinque anni da una dittatura non solo brutale ma anche cieca allo sviluppo del Paese e alla sua integrazione internazionale.

Nella giornata storica di lunedì 1° febbraio, i riflettori sono tornati a concentrarsi sulla 70enne signora Aung San Suu Kyi, Premio Nobel per la Pace nel 1991. Tutt’altro che terminato è infatti il suo impegno a mettere fine al potere delle forze armate garantito dalla costituzione da esse scritta e approvata nel 2008, ai loro privilegi economici e al controllo che ancora mantengono su vaste aree del Paese e sulle sue risorse. Per non parlare del potere di veto che mantengono sulle istituzioni democratiche.

Tra i molti giovani per la prima vota entrati da eletti nel parlamento bicamerale della capitale politica Naypyidaw – tuttavia – le prospettive del Paese sono una delle principali linee d’impegno. L’altra, sempre più, sarà avviare il ricambio al vertice della Lega nazionale per la democrazia, il partito guidato da oltre un quarto di secolo da Aung San Suu Kyi. Una linea che potrebbe incentivare una reazione negativa nelle forze armate, che ritenendo indebolito il ruolo dell’icona della democrazia birrmana potrebbero provare a limitarne il potere come capo di governo, al momento ancora virtuale.

La determinazione al cambiamento potrebbe però anche essere un incentivo a un maggiore realismo al punto da cedere alle pressioni dell’attuale maggioranza e consentire un emendamento costituzionale che apra la strada della presidenza proprio per Aung San Suu Kyi. Un obiettivo mai sconfessato dalla signora, ma negatole dall’articolo che impedisce a chi abbia consorte o prole di cittadinanza straniera (come lei vedova e madre di cittadini britannici) di concorrere alla presidenza.

Da oltre due mesi, ormai, è in corso il braccio di ferro tra la Lega di Aung San Suu Kyi e i vertici delle forze armate affinché il ruolo degli uomini in divisa ruolo sia nel prossimo futuro quello di garanti della sicurezza e dell’unità del Paese, non di suoi gestori.

Nel parlamento la Lega detiene 390 seggi su 664. Il Partito per la solidarietà e lo sviluppo, vicino all’ex regime, ne ha 41; il resto è in parte frazionato tra una miriade di formazioni, incluse quelle che esprimono le istanze di alcuni grupi etnici. Alle forze armate, tuttavia, la costituzione garantisce 166 seggi, il 25 per cento del totale. Un numero che consente di bloccare qualunque riforma della carta fondamentale dello Stato, a partire da quella che – togliendo loro uno specifico ruolo politico – ne permetterebbe un definitivo rientro nelle caserme.

Una coabitazione tutt’altro che facile, quella tra democratici e militari, segnata da un passato ancora troppo vicino e dalla sfiducia sulla sincerità che finora mai i “signori della guerra” birmani hanno dimostrato. Brucia ancora nella vecchia guardia della Lega la sconfessione della vittoria senza incertezze nelle elezioni del maggio 1990, negata dal regime e pretesto per una ondata di arresti, detenzioni, torture e sparizioni.

Diversi segnali indicherebbero anche una trattativa in corso tra Aung San Suu Kyi e i vertici militari per un “via libera” alla sua candidatura alla presidenza, che non è chiaro se passerebbe o o meno da una revisione d’urgenza della costituzione. In alternativa resta più probabile un incarico affidato al presidente a interim del parlamento, Shwe Man, ex generale, come il presidente in uscita Thein Sein, e per molti anni intermediario tra Aung San Suu Kyi e il regime.

Su tutto dominano urgenza e necessità. Le sfide che il Paese e il governo si trovano di fronte sono colossali: la transizione dei poteri, la soluzione definitiva al conflitto tra milizie etniche e forze governative, la fine delle tensione interetniche e interreligiose. Infine, quella di uno sviluppo equo per questo paese di 52 milioni di abitanti e vasto il doppio dell’Italia, tra le più ricche provincie dell’impero britannico fino all’indipendenza nel 1948 e ora – dopo mezzo secolo di controllo militare – tra i più poveri dell’Asia.