Allarme Isis in Estremo Oriente, si muove l’Indonesia

Allarme Isis in Estremo Oriente, si muove l’Indonesia

Il presidente Joko Widodo ha dichiarato guerra ai gruppi radicali sospettati di connivenza con il terrorismo. Anche per l’allarme creato dalla situazione fuori controllo di Marawi, nel Sud delle Filippine

 

Sarebbero 1.200 i militanti associati all’autoproclamato califfato presenti nel Sud delle Filippine a fianco di gruppi che ne condividono ideologia e azioni. La notizia – diffusa il 5 giugno al termine del Dialogo di Sahngri-La, maggiore assise dell’Asia-Pacifico sulla sicurezza – sta provocando un’onda d’urto nell’intera regione. Sia perché sarebbero decine i combattenti stranieri già impegnati con centinaia di guerriglieri locali nella città filippina di Marawi dove si combatte dal 23 maggio; sia perché si parla ormai di numeri, di certezze e non solo di possibilità di un contagio incentivato dal rientro dei jihadisti malesi, indonesiani e di altri nazionalità dalle aree di conflitto mediorientali.

D’altra parte la presenza consistente della militanza armata indonesiana nel Sud delle Filippine è proporzionata all’immensità della popolazione del maggiore Paese musulmano al mondo, con 230 milioni di fedeli. Non una giustificazione, ma sicuramente una chiamata a un maggiore impegno, sia dei governi locali, sia collettiva. Un primo passo concreto dovrebbe essere il pattugliamento congiunto in funzione anti-terrorismo delle aree marittime deciso proprio al Dialogo, evento annuale che ha sede a Singapore.

Jakarta ha comunque da tempo individuato il rischio presente nella congiunzione tra le istanze veicolate dall’Is/Daesh e più antiche forme di jihadismo, in parte con riferimento a Al Qaeda, già manifestatesi in modo devastante a Bali nell’ottobre 2002 e successivamente. Il presidente Joko Widodo si è sostanzialmente astenuto dal prendere una posizione di difesa del suo ex vice come governatore di Jakarta, collaboratore politico e amico, Basuki Tjahaja Purnama, più noto come Ahok, portato in tribunale, alla sconfitta nelle elezioni per il governatorato della capitale il 19 aprile e infine in carcere dall’accusa infamante di blasfemia, portata contro di lui dagli estremisti del Fronte dei difensori dell’islam in accordo con la politica islamista e reazionaria.

Emessa la sentenza di condanna contro Ahok – che ha rinunciato a chiedere l’appello per evitare un inasprimento della situazione e probabilmente anche della sua pena, data la pressione estremista sulla politica e sulla magistratura – Widodo ha però dichiarato guerra ai gruppi radicali sospettati di connivenza con il terrorismo. Raccogliendo in questo l’appoggio di avversari in parlamento ma associati nella consapevolezza del rischio di un radicamento dell’Is/Daesh in Indonesia. È il caso, ad esempio, dell’ex generale Wiranto, ora ministro. Nel mirino soprattutto l’Hizbut Tahrir Indonesia, emanazione dell’Hizb ut-Tahir, nato in Palestina negli anni Cinquanta e oggi illegale in 16 Paesi, di cui 14 musulmani. Presente in Indonesia dagli anni Ottanta, avrebbe mancato a tre obiettivi istituzionali: un ruolo attivo nell’impegno all’unità nazionale, l’adesione ai principi nazionali e costituzionali, la partecipazione alla sicurezza del Paese. Dai suoi ranghi è anche uscito il sospetto organizzatore dell’attacco al cuore di Jakarta il 14 gennaio 2016.

In un discorso l’8 maggio, lo stesso Wiranto ha segnalato senza mezzi termini che obiettivo del gruppo è favorire l’instaurazione del califfato nell’arcipelago. Insomma, una minaccia nazionale. Necessario quindi il suo scioglimento legale.

Solo un esempio – a cui si associa la cronaca quasi quotidiana di individuazioni e arresti di estremisti, azioni anti-terrorismo, esercitazioni dei reparti speciali ripresi da mass media – di come il confronto da tempo aperto tra islam moderato e radicale va finalmente trasformandosi nella difesa attiva dei valori fondanti dello Stato indonesiano contro ideologie destabilizzanti e violente estranee alla tradizione locale ma finora in parte tollerate, in parte alimentate da interessi economici, in parte giocate dalla politica per i suoi fini.