Bangladesh, a un anno dalla strage parla il cardinale

Bangladesh, a un anno dalla strage parla il cardinale

Il primo luglio del 2016, 22 vittime civili, tra cui nove italiani ed alcuni poliziotti intervenuti sul posto, furono trucidati da un gruppo di studenti islamisti presso il ristorante Holey Artisan Bakery. «Da allora si sono moltiplicati gli incontri interreligiosi e c’è più attenzione nei confronti dei giovani», dice l’arcivescovo cattolico Patrick D’Rozario.

Eminenza, che cosa ha significato per il Bangladesh l’attentato contro gli stranieri del 1 luglio 2016?

«Ha significato molte cose dal punto di vista sociale e politico. Ma vorrei soffermarmi sul fatto che è stata una enorme tragedia, che però ha fatto molto riflettere anzitutto sulla famiglia e le responsabilità dei genitori. Alcuni dei giovani terroristi coinvolti erano spariti da mesi senza che le famiglie sapessero dove fossero. Ci si è resi conto del fatto che bisogna essere responsabili gli uni degli altri. Evitare che i giovani vengano strumentalizzati e usati. Dedicare loro del tempo nonostante tutti gli impegni. Cercarli se spariscono dalla circolazione. Questo adesso viene fatto anche per proteggersi dalla radicalizzazione estremista e da altri fatti simili a quelli del primo luglio. L’attentato è stato organizzato all’interno di circoli intellettuali ed universitari utilizzando gli studenti. Dopo quel primo luglio si sono moltiplicati gli incontri interreligiosi tra i vari leader. Anch’io sono stato coinvolto. Il risultato più importate è stato quello di far leggere in tutte le moschee un messaggio per cui il nome di Dio e la religione non possono essere invocati ed usati per uccidere».

Quali rischi pone il fondamentalismo islamico al Bangladesh?

«È certamente una componente della società ed è in crescita. Il Paese tuttavia nel suo complesso rimane ancorato a valori di tolleranza, unità nazionale e convivenza pacifica. Il governo è costretto a venire a patti con questi movimenti, come il recente riconoscimento di un percorso scolastico parallelo a quello statale basato sulle scuole coraniche (madrase). C’è un’istanza ideologica interna alla società che non ha mai accettato l’idea dello Stato bengalese, preferendo quella dell’unico Pakistan come Paese e Stato totalmente islamico».

Se quello attuale è il governo più aperto e tollerante che avete avuto dall’indipendenza dal Pakistan nel 1971 cosa vi aspettate dalle elezioni del 2019?

«È presto per dirlo. Certamente le minoranze e le componenti non islamiste della società vorranno consolidare l’attuale processo. Nello stesso tempo c’è un problema che questo governo non ha risolto ed è quello della corruzione. Ad un certo punto, come sempre succede, la gente si stanca dei politici corrotti e vuole cambiare. Ma questo in Bangladesh, con l’87% della popolazione musulmana, significherebbe la vittoria degli islamisti e dei nazionalisti».

Si parla di un possibile viaggio del Papa in India e Bangladesh. Per quali motivi ritiene che dovrebbe visitare il suo Paese? Quale potrebbe essere il suo messaggio?

«Una visita di papa Francesco contribuirebbe molto a rafforzare il dialogo, la democrazia, la forma secolare dello Stato. Dovrebbe anche richiamare il mondo dell’industria alla giustizia nei confronti dei lavoratori. Gli imprenditori non devono pensare solo a trarre il massimo profitto dalla necessità dei nostri giovani al lavoro. I profitti non devono andare interamente all’estero. Devono rimanere anche qui per migliorare le condizioni di vita della nostra gente. Inoltre abbiamo ormai un problema con il cambiamento climatico e i nuovi fenomeni di siccità e piovosità diversi da quelli tradizionali, con notevoli conseguenze sull’agricoltura».

Se la Chiesa è per sua natura missionaria, cosa significa questo in Bangladesh?

«Riusciamo certamente a parlare ai gruppi indigeni, che nel Paese rappresentano le minoranze. Molte persone fra  Tra loro abbiamo diverse migliaia di battesimi di adulti ogni anno. Un po’ anche agli indù. Molto meno o quasi per niente alla maggioranza musulmana. Nel loro caso parliamo di “dialogo”. Ma la questione della missione rimane aperta. In ogni caso la Chiesa, pur piccola, ha un forte impatto positivo sulla società. Un piatto di riso, per essere buono, non ha bisogno di un piatto di sale. Solo di un pizzico. È questo il nostro contributo. Sia la Conferenza episcopale che il governo hanno già ufficialmente invitato il Papa in Bangladesh. L’India non ancora. Un partito di governo fondamentalista, dal punto di vista culturale e religioso, come quello attuale in India, fa più fatica ad accogliere e dialogare con gli altri. Essere presenti ed accettati nella società, offrire il nostro servizio, aiutare i poveri, lavorare per la pace è il nostro obiettivo e la nostra testimonianza».

Che cosa ha significato per il Bangladesh il fatto che l’anno scorso lei sia stato creato cardinale?

«Per i giovani cristiani è stato un motivo di sano orgoglio. Sono stato sorpreso dalla loro reazione. È stato come un riconoscimento internazionale del fatto che la comunità cristiana cui appartengono esiste e conta qualcosa sulla scena mondiale. Sono in contatto con molti giovani anche attraverso Facebook. Ho sempre cercato il contatto diretto con le persone. Sono stato il primo vescovo della neonata diocesi di Rajshahi ormai quasi venti ani fa. Una città ed una zona del Paese che non conoscevo. Ma posso dire di aver visitato personalmente il 95 per cento delle famiglie cattoliche».