Cina-Filippine, quali prospettive dopo la sentenza dell’Aja?

Cina-Filippine, quali prospettive dopo la sentenza dell’Aja?

La Corte arbitrare internazionale ha dichiarato infondate le rivendicazioni di Pechino sulle zone contese del Mar Cinese meridionale. Un primo stop a un espansionismo che preoccupa Washington

 

Il verdetto della Corte arbitrale internazionale dell’Aia a cui tre anni fa le Filippine si erano rivolte per avere indicazioni utili a frenare l’espansionismo cinese nelle acque al largo delle sue coste ha bocciato politiche, azioni e velleità di Pechino.

Non soltanto i giudici hanno sentenziato l’illegalità delle rivendicazioni avanzate in base a una mappa del 1949 che modificava a favore della neonata Repubblica popolare a guida comunista le aree di sovrapposizione territoriale con gli altri Paesi litoranei del Mar Cinese meridionale a centinaia di miglia dall’isola cinese più meridionale, Hainan; ha evidenziato anche come la politica unilaterale di Pechino e la non accettazione di un dialogo internazionale sulla questione non pagano se non con l’isolamento.

Dopo decenni di incubazione e un conflitto breve ma rabbioso tra Cina e Vietnam nel 1974 che costò al secondo le Paracel, la questione territoriale nei “mari caldi” è riapparsa tra le politiche strategiche cinesi con un crescendo dirompente, non più ignorabile perché accompagnato da azioni insieme di espansione territoriale e dissuasione verso i Paesi antagonisti. Senza mai accettare alcuna limitazione, contrastando con la forza i diritti reclamati da pescatori e autorità sulle isole parte degli arcipelaghi delle Paracel a settentrione e delle Spratly a meridione, minacciando di escludere con aree di interdizione autoproclamate navi e aerei di altri paesi dalle rotte presso o attorno le aree annesse. Qui, in zone di pesca essenziali all’economia locale, Pechino ha costruito strutture fisse, ampliando lo spazio emerso e cementificando i fondali per costruirvi porti, strutture di controllo civile e militare, piste di atterraggio.

Adesso, per alcuni studiosi, come William Choong dell’International Institute for Strategic Studies, occorrerà ridurre le tensioni “dando alla Cina una scala da cui scendere” e evitare ogni azione che provochi il nazionalismo cinese a una reazione dura. Per altri, occorre che Pechino modifichi il suo atteggiamento nel segno della responsabilità che dovrebbe appartenerle in quanto grande nazione che vuole inserirsi a pieno titolo nel contesto mondiale. Per l’esperto di diritto internazionale e ex diplomatico Walter Woon il nazionalismo cinese sta allargando il sospetto tra i suoi vicini e il prezzo da pagare per questa situazione potrebbe essere pesante.

Non si è dunque sciolto il nodo che stringe sempre più su un tratto di mare vasto tre milioni di chilometri quadrati – cruciale per traffici e strategie regionali e globali – che oggi la Repubblica popolare cinese rivendica per sé al 90 per cento.

Dopo avere cacciato nel 2012 la presenza filippina dal Banco di Scarborough nelle Spratly, l’espansionismo cinese non ha più avuto limiti e all’esclusione dei Paesi a cui contende la territorialità dell’area (Filippine, Vietnam, Malaysia, Brunei, Taiwan) Pechino ha aggiunto la pretesa di controllo sulle imbarcazioni e sui velivoli di Paesi terzi che si avvicinano alle aree che considera di propria competenza.

Questo comportamento, che avviene al di fuori di qualsiasi mediazione diplomatica, è aggravato dalla crescente militarizzazione dell’area. Un esempio vale per tutti. A metà febbraio scorso, il ministero della Difesa di Taiwan segnalava l’installazione da parte cinese sull’isola di Woody, nelle Paracel, di un sistema missilistico terra-aria. Una segnalazione provata dall’emittente televisiva FoxNews con immagini satellitari da cui emergeva la presenza di almeno due batterie di missili terra-aria e di un sistema radar sull’isola. Pechino, per voce del ministro degli Esteri Wang Yi, negava la circostanza ma ammetteva la possibilità di “limitate strutture difensive”.

Una situazione che ha spinto gli Stati Uniti a far valere la priorità data dall’amministrazione Obama al ruolo strategico Usa nell’area, non solo sostenendo le rivendicazioni dell’alleato filippino ma anche accentuando il transito di aerei militari e di cacciatorpediniere presso installazioni che Pechino ritiene parte integrante del proprio territorio ma sono vitali anche per Washington e per i suoi alleati, sia in Occidente, sia nella regione.