Cina, un tè con lo scrittore

Cina, un tè con lo scrittore

Corrispondente per quattro anni del Corriere della Sera, Marco Del Corona ci restituisce in un libro la complessità della Cina, attraverso l’incontro con i più importanti scrittori contemporanei

 

Pubblichiamo uno stralcio della prefazione del libro Un tè con Mo Yan (Ed. ObarraO)

Ci sono incontri che misurano una distanza. E la distanza è mutevole. Si può manifestare in una lingua diversa dalla tua, in un luogo che non ti appartiene, in una vita che non ti contempla, in uno stato d’animo fuori sincrono. Ci sono incontri che misurano una distanza e tuttavia ti forniscono l’antidoto. Il colloquio ti porta vicino e socchiude una forma di condivisione. L’essenziale è non nascondersela, la distanza. Abbracciarla, piuttosto: farla propria.

La Cina è un luogo di distanze continue. Il viaggiatore o chi si trova a viverci da straniero intersecano continuamente le traiettorie della differenza. La frequentazione della Cina insegna a misurare la distanza giorno dopo giorno, e – appunto – non c’è misura più efficace degli incontri. Delle donne e degli uomini cinesi.

Il luogo comune che vuole la Cina un Paese impossibile da conoscere va ridimensionato, forse negato: la Cina è un Paese che si conosce attraverso la distanza. Gli incontri, e dunque le persone, sono porte d’accesso alla differenza. Nelle persone la distanza si riduce, i capi della fune si avvicinano. E spesso le persone sono in grado di fornire, con un po’ di fortuna, una sintesi di questioni altrimenti quasi inaccessibili. Vivere in Cina, parlare con i suoi artisti e con i suoi scrittori, anche con chi ha lasciato il Paese da poco come Liao Yiwu o da più tempo come Yang Yi, squaderna un paesaggio estremamente variegato. Gli atteggiamenti esistenziali e in senso ampio politici sfumano tra un estremo e l’altro, contraddicendo ogni pretesa lettura manichea.

Ci sono i martiri della libertà assoluta di parola, alla Liu Xiaobo (il poeta e premio Nobel per la pace incarcerato) e alla Liao Yiwu (costretto a lasciare clandestinamente il suo Paese) ma ci sono anche gli apolitici, da Guo Jingming a Yang Hongying. Più spesso ci si muove in un’area intermedia, vasta e complicata, fatta di astuzie, compromessi, autocensura, aggiramenti, connivenze, piccole ribellioni (Han Han, Yu Hua…). La scelta di pubblicare a Hong Kong o a Taiwan viene spesso tollerata dalle autorità, anche se poi la distribuzione dei volumi, peraltro redatti in caratteri tradizionali, è ufficialmente bloccata sulla Cina continentale. Il web è la soluzione per mettere in circolo testi introvabili, nonostante il lavorio dei censori. Chi scrive in inglese, se non si spinge oltre certi limiti, può avere una sorta di immunità, e più innocuo ancora è chi vive all’estero (è il caso di Ma Jian, non incluso in questo libro), letto nel mondo ma condannato all’irrilevanza in patria. Chi volesse vedere rispecchiate con coerenza nell’opera di un autore le sue scelte esistenziali si imbatterebbe nel prosaico pragmatismo cinese. Talvolta virtuosistico: un’arte nell’arte. Si prenda Mo Yan, il più celebrato: iscritto al Partito comunista, vicepresidente dell’Associazione degli scrittori, membro della Conferenza consultiva, è di fatto organico al potere, tuttavia in molti suoi lavori – da Le canzoni dell’aglio degli anni Ottanta al molto più recente Le rane – la sua critica al potere e agli uomini che lo incarnano è durissima, implacabile. Yu Hua, che in Vivere! non ha nascosto la stolida brutalità del maoismo e in Brothers ha mostrato la vacuità della nuova ubriacatura plutocratica, è stato a lungo cauto e quasi sussiegoso nei confronti delle autorità, salvo poi esplodere con la lucida indignazione di La Cina in dieci parole, non a caso pubblicato a Taiwan e all’estero. Eppure Yu Hua scrive per il «New York Times», gira liberamente e viene indicato come una delle voci più importanti della letteratura di oggi.

Questa varietà di atteggiamenti offre, o perlomeno ha offerto a me, un abbozzo di morale: la letteratura e la vita danno ciascuna le risposte che l’altra tace, e se la letteratura è una specie di vita, la vita a sua volta è anche letteratura. Vita e letteratura possono risuonare dialetticamente, l’una con l’altra.

Certo sono complementari: è questo uno dei possibili insegnamenti che si traggono dalla frequentazione degli scrittori cinesi. Uomini e donne pungenti e insieme salutari come ortiche. Le “ortiche” che, mettendo in scena mentalmente una vecchia canzone di Franco Battiato, mi sono divertito a “raccogliere”, ecco, “per le strade di Pechino”. E qui, Battiato o non Battiato, le metaforiche “strade di Pechino”, che mi hanno accompagnato a lungo, riportano al punto di partenza. La distanza. Ogni intervista è la presa d’atto di una distanza e la sua istantanea confutazione. È un dialogo che si condivide. MM