Giappone, i figli dei malati di lebbra chiedono i danni

Giappone, i figli dei malati di lebbra chiedono i danni

Fino al 1996 la legge giapponese costrinse chi era stato contagiato dal morbo di Hansen a vivere segregato. Un ricorso presentato in questi giorni contro le autorità giapponesi riporta alla luce questo dramma, raccontato anche dal film «Le ricette della signora Toku»

 

Mangereste un delizioso dolcetto se ad averlo realizzato fossero state le mani di una malata di lebbra non contagiosa? È questo l’interrogativo che insinua il film giapponese Le ricette della signora Toku, uscito nel dicembre scorso anche sugli schermi italiani, in cui un’anziana donna, senza alcun segno esteriore di malattia, è costretta a lasciare il suo lavoro in un negozietto di dolci perché la clientela, scoperto il suo segreto, si è volatilizzata.

Chi ha visto questa storia si sarà domandato come sia possibile che in un Paese ricco come il Giappone si possa parlare, oggi, di morbo di Hansen (il nome scientifico della malattia). In effetti, attualmente non esistono nuovi casi. Ma in questi giorni la lebbra è tornata d’attualità per via di un ricorso presentato il 15 febbraio scorso da 59 persone presso il tribunale di Kumamoto contro le autorità giapponesi. I ricorrenti sono soprattutto i figli di anziani malati che hanno vissuto il dramma della malattia, e qualche sopravvissuto. Tramite gli avvocati, hanno chiesto un risarcimento di 5 milioni di yen (circa 39mila 600 euro) e scuse ufficiali pubbliche per il trattamento discriminatorio, i pregiudizi e le difficoltà quotidiane vissute sulla loro pelle. A marzo è atteso un nuovo ricorso che, secondo l’Asahi Shimbun, dovrebbe portare il numero totale dei ricorrenti, provenienti da tutto il Giappone, a 150.

Fin dai tempi di Gesù, i lebbrosi sono sempre stati discriminati. Le deformazioni fisiche provocate dal batterio responsabile di questa patologia, che colpisce il sistema nervoso, hanno provocato ribrezzo, orrore, paura. La lebbra esiste da secoli anche in Giappone, tant’è che nel breve periodo di permanenza dei missionari cattolici, a cavallo tra il Cinquecento e il Seicento, i religiosi crearono dei lebbrosari per curare i malati.

Nel 1907, le autorità giapponesi decidono che i lebbrosi vanno definitivamente tolti di torno: non solo dai templi e dalle strade dove mendicavano, ma anche dalle loro famiglie e dalla vista dei sani. Viene creata una rete di sanatori dove fino al 1996 i malati sono costretti a risiedere per legge, segregati e dimenticati dal resto del mondo. Questa prima normativa, che tramuta i lebbrosi in reclusi, viene ribadita nel 1931 e nel dopoguerra, nel 1953. Intanto, la medicina avanza: nel 1959 viene isolata la rifampicina, che nel giro di un decennio diventa un antibiotico dagli effetti prodigiosi per debellare il morbo di Hansen il quale – va ricordato – non è ereditario. I malati giapponesi, però, restano rinchiusi per altri trentacinque anni, finché la famigerata legge sulla prevenzione della lebbra viene abolita.

Secondo le testimonianze, nei sanatori spesso cibo, assistenza medica e cure scarseggiavano. Un anziano malato, internato a Oshima, ha raccontato di essere entrato nella struttura nel 1951, trovando 700 malati seguiti solo da due medici e dieci infermiere. Era un ventenne, all’epoca, e fra le mura del sanatorio finì per innamorarsi di una giovane paziente. Si sposarono e, quando lei rimase incinta, al settimo mese fu costretta ad abortire. Sterilizzazioni e aborti, infatti, facevano parte della politica applicata ai malati del morbo di Hansen. Quanto alle  famiglie d’origine, il lebbroso rappresentava una vergogna: dopo il ricovero coatto in sanatorio, veniva dimenticato, come se fosse morto. Le famiglie venivano disgregate, i figli perdevano il contatto con un genitore per sempre. Sono queste le ferite che i ricorrenti nella causa di Kumamoto denunciano.

Lo stigma sociale della lebbra è persistente. In tempi più recenti, il figlio di un malato ha raccontato che i futuri suoceri hanno costretto la fidanzata a lasciarlo. In seguito il giovane ha trovato un’altra compagna, ma non ha dimenticato la disperazione provata e la rabbia che, in quel momento, aveva riversato sul padre malato.

Che i giapponesi non siano teneri con chi è diverso è un dato di fatto. Da secoli discriminano i burakumin, i discendenti delle persone legate a mestieri come la concia delle pelli, giudicati impuri. Nel dopoguerra chi era figlio di un hibakusha – i sopravvissuti all’atomica – faticava a sposarsi per un tabù mai dichiarato. I figli degli ultimi lebbrosi, benché sani, sono l’ennesima espressione di una discriminazione sotterranea che in Giappone non ha mai cessato di esistere.