Il sogno dell’Everest torna realtà

Il sogno dell’Everest torna realtà

Dopo un anno di inattività, dovuta al terremoto del Nepal, ricominciano le scalate verso la vetta del monte Everest: un ottima notizia per l’alpinismo internazionale, ma anche per l’economia del Paese colpito dal sisma, che dall’industria della montagna trae ottimi profitti.

Il tetto del mondo torna a spuntare tra le nuvole entro cui è avvolto e il maestoso monte dopo tre anni lascia ben sperare un’intera categoria di scalatori professionisti che sognano la sua vetta. È questo infatti il periodo dell’anno in cui, approfittando del tempo favorevole alla salita, gruppi di alpinisti tentano l’ascesa all’Everest. Ottomila ottocento quarantotto metri che gli scalatori provano da quarant’anni ad arrampicare da entrambi i lati della montagna, Nepal e Tibet. Quest’anno, però, la salita alla vetta è particolarmente degna di nota, perché arriva dopo tre stagioni disastrose per l’alpinismo nel Paese colpito dal sisma nel 2015.

L’impresa che torna a far splendere il monte più alto del mondo è stata firmata qualche giorno fa da un gruppo di nove sherpa (Gyalzen Dorje, Ang Pemba, Nima Tshering, Sera Gyalzen, Pasang Tenzing, Mingma, Mingma Tsiri, Ang Gyalzen e Lhakpa Tsering) che hanno installato il sistema delle corde fisse dopo due giorni di lavoro, aprendo così le porte alla vetta ad altri scalatori dell’ Himalaya. Già nei primi giorni del marzo scorso, il famoso scalatore britannico Kenton Cool insieme al collega Robert Lucas era stato il primo occidentale a risalire in vetta dopo il 2014, ma salendo dal versante del Tibet.

Infatti dal 2013, una serie di contrasti tra alpinisti occidentali e sherpa aveva diminuito il numero delle salite, mentre l’anno successivo un incidente aveva compromesso la Khumbu Icefall, una distesa di blocchi di ghiaccio e crepacci considerata un’insidia per gli alpinisti che salgono l’Everest dal lato del Nepal, e che ha ucciso 16 lavoratori alle pendici del monte. Ma è stato il terremoto di un anno fa (di magnitudo 7,8) che, oltre a causare la morte di 8500 persone in Nepal, ha innescato frane e valanghe che hanno spazzato via interi villeggi e anche il campo base dell’Everest, uccidendo 22 persone tra alpinisti e operatori di sostegno e intrappolandone decine sulle montagne per un bilancio che è considerato il più letale della storia della montagna.

Da quell’episodio, fino ad oggi nessun trekker ha provato a risalire la vetta, gettando nella crisi una delle industrie più redditizie per il Nepal, che in una stagione alpinistica regolare garantisce circa 11 milioni di dollari all’economia del Paese e dà lavoro agli sherpa, il gruppo etnico principale che vive nei villaggi ai piedi dell’Everest, i quali vengono assoldato per trasportare attrezzi e come guide nella scalata. Dopo il terremoto, il numero di sherpa assunti sono diminuiti di circa 60 unità rispetto al 2014 perché i numeri di alpinisti sono calati: il Ministero del Nepal ha dichiarato infatti di aver rilasciato quest’anno 275 permessi (di cui il 40% sono estensioni di quelli rilasciati nello sfortunato 2015) a fronte dei 315 di tre anni fa, ultima stagione normale per il monte Everest.

Considerando che un permesso per la scalata costa circa 11mila dollari a persona, la notizia delle spedizione di questi mesi (cui si aggiungono dodici altri alpinisti pronti a partire) è un segnale di ripresa: dopo due stagioni della tragedia, gli scalatori sono tornati a sfidare la vetta. Un piccolo segno di speranza per il Nepal in una situazione che – come ricordavamo pochi giorni fa, a un anno dal sisma – resta molto difficile.