India, il presidente dalit dell’era Modi

India, il presidente dalit dell’era Modi

Il grande gigante asiatico sta eleggendo il suo presidente e i due principali candidati sono due «fuori casta». Ma è una scelta figlia più dell’opportunismo politico che di una vera svolta in un Paese che pretende di tenere insieme sviluppo e antiche discriminazioni

 

Ancora una volta l’immensa macchina elettorale indiana si è messa in moto. Questa volta però in modo ridotto. L’elezione del presidente è infatti appannaggio dei rappresentanti eletti al Parlamento federale di New Delhi e alle assemblee dei vari Stati e Territori. Complessivamente poco meno di 5.000 individui che dovranno sostanzialmente ridurre la propria scelta a due candidati: quello della Nuova Alleanza democratica, di centro-destra, guidata dal nazionalista e filo-induista Bharatiya Janata Party (Bjp) del premier Narendra Modi, e quello l’Alleanza progressista unita, collocabile nel centro-sinistra, che ha al centro il Partito del Congresso nazionale indiano, laicista, di cui è leader nazionale l’italiana naturalizzata indiana Sonia Gandhi. Il voto è avvenuto lunedì e i risultati sono attesi per giovedì 20.

Significativamente, entrambi gli schieramenti hanno candidato alla massima carica dello Stato indiano – di alto significato simbolico e istituzionale ma dai pochi poteri effettivi – un dalit, cioè un esponente dei gruppi meno privilegiati della tradizione socio-religiosa induista. Quelli che Gandhi chiamò “harijan”, “Figli di Dio” nel tentativo di farli uscire dalla pesante tradizione di “fuoricasta”, ovvero addetti ai lavoro più umili o disagiati, in condizione di dipendenza dalla caste superiori, senza alcuna speranza di uscire – almeno un tempo – dalla loro condizione se non dopo un numero indefinito di rinascite nel rispetto assoluto della loro condizione. Si calcola che siano il 25 per cento degli indiani, che hanno, soprattutto in passato, cercato nella conversione a islamismo e cristianesimo una possibilità di liberazione, sovente illusoria, da una condizione di discriminazione e disagio

In un certo senso, la scelta di candidare due dalit rispecchia il tentativo di fare del presidente l’espressione delle varie componenti sociali dell’India, ma ne mette in risalto anche le contraddizioni. Alla fine a pochi sfugge che – ancor più in un tempo in cui si modificano leggi e si perseguono intere comunità di stato socio-religioso inferiore per proteggere i bovini sacri all’induismo dalla macellazione – proporre un dalit alla presidenza presenta alte dosi di opportunismo politico, dopo che nel passato alla stessa carica hanno avuto accesso tanto per citare solo gli ultimi – il musulmano P.J. Abdul Kalam, “padre” dell’atomica e della missilistica indiana, la signora Pratibha Patil (prima donna-presidente), il navigato politico (indù ma laicista) Pranab Mukherjee. Si chiude in qualche modo un cerchio che ricollegherà l’eletto di questa consultazione all’ultimo e finora unico dalit mai eletto alla carica: il diplomatico e intellettuale K.R. Narayanan, che fu presidente dal 1997 al 2002.

A confrontarsi sono Ram Nath Kovind, politico di lungo corso del Bjp, e la signora Meira Kumar, parlamentare di grande esperienza. Salvo improbabili sorprese il primo dovrebbe assicurarsi una maggioranza superiore al 60 per cento in un altro voto-pigliatutto per l’inarrestabile Bjp, che già domina le camere del Parlamento centrale e diversi Stati.

Politiche populiste, una capillare campagna identitaria e l’apertura netta a investimenti e ammodernamento sono state carte vincenti dell’amministrazione in carica dal 2014. In più l’onda lunga della sfiducia verso il Congresso, al potere quasi ininterrottamente dall’indipendenza – sfiducia legata suo immobilismo nonostante la capacità inclusiva che ne aveva fatto il maggiore ricettore di voti delle minoranze religiose e degli emarginati – non si è ancora fermata. Al momento l’apertura di credito dell’imprenditoria indiana e degli investitori stranieri hanno coperto le contraddizioni di un potere che pretende di conciliare sviluppo e persistenza di antiche discriminazioni. Così sotto il governo Modi hanno potuto guadagnare ampio spazio anche i movimenti estremisti dell’induismo che professano un’India di diritto indù e per gli altri la scelta tra riconversione, sottomissione o migrazione.