Indonesia, la vera posta in gioco sul governatore Ahok

Indonesia, la vera posta in gioco sul governatore Ahok

È atteso per martedì 27 il verdetto sul procedimento contro il governatore di Giakarta – cristiano – accusato di blasfemia per aver denunciato le strumentalizzazioni politiche del Corano. Test di democrazia per il Paese dell’«unità nella diversità»

 

Mentre cerca nuove strade di sviluppo e prosperità per i suoi 250 milioni di abitanti, l’Indonesia vive settimane di tensione. Da un lato la minaccia terroristica alimentata dal rientro di centinaia di militanti che rifluiscono dalle aree di conflitto mediorientale con la graduale sconfitta dell’Isis, dall’altra la tensione cresciuta attorno alla figura di Basuki Tjahaja Purnama, “Ahok”, dal 14 novembre 2014 governatore della capitale e dei suoi dieci milioni di abitanti. Un outsider della politica indonesiana, Ahok. Non solo per la giovane età (50 anni) e la mancanza di legami con poteri antichi e persistenti. Il governatore infatti è il primo indonesiano di origine cinese a accedere a questa carica, ma anche il secondo di fede cristiana. Anche per queste caratteristiche era stato scelto nel 2012 come suo vice da Joko Widodo, a sua volta ex governatore di Jakarta e da un biennio presidente della repubblica. Indubbiamente, la sua elezione aveva segnato un altro colpo all’intolleranza, dopo che Widodo aveva chiamato a far parte del proprio gabinetto ministeriale come ministro dei Trasporti Ignasius Jonan, un altro cristiano.

La vittoria del governatore in carica aveva acceso la speranza di maggiore integrazione e partecipazione per la comunità cinese, divisa tra una minoranza che è ai vertici della gestione del Paese e un’ampia percentuale che vive in sostanziale segregazione. Sposato con tre figli, carriera di imprenditore prima di accedere alla politica nazionale, Ahok ha confermato una stile pienamente in linea con quello presidenziale che intende essere dalla parte della popolazione e dello sviluppo, promuovendo il contenimento degli sprechi e della corruzione, una più equa suddivisione della ricchezza.

Un personaggio pragmatico e poco incline alla diplomazia, infine, che gli islamisti temevano potesse favorire le minoranze; infatti, dopo un breve periodo in cui ha proseguito l’opera riformatrice di Widodo con lo stesso stile insieme disincantato e concreto – e allo stesso modo non influenzato dalla propria etnicità e fede – Ahok si è ritrovato nel mirino di gruppi radicali religiosi, e in particolare del Fronte dei difensori dell’Islam, ostili a lasciare alla guida di un cristiano la capitale del più popoloso Paese musulmano al mondo e resi inquieti dal suo programma che non ha alcun risvolto religioso.

Il confronto tra gli islamisti biancovestiti e i cittadini con i colori nazionali rosso-bianco che rivendicano l’identità nazionale espressa nel motto “Bhinneka Tunggal Ika”, (Unità nella diversità) è già passato dalle piazze alle aule del tribunale in attesa di diventare anche apertamente politico.

Dopo quelle del 13 e del 20 dicembre, il 27 è infatti attesa l’udienza definitiva che confermerà o cancellerà il procedimento contro il governatore, accusato di avere oltraggiato il Corano per avere contrastato la pretesa di un avversario – sostenuta da un versetto coranico (quello chiamato Al-Maidah) – che un non musulmano non possa governare non musulmani. Ahok, citando lo stesso versetto aveva chiesto di non strumentalizzare la religione a fini elettorali: «Le mie affermazioni miravano a politici con pochi scrupoli che hanno usato (il Corano) in modo pretestuoso perché non vogliono competere alla pari nelle elezioni». Tuttavia, per gli estremisti la stessa citazione del versetto coranico ha meritato la denuncia e si augurano divenga motivazione per una condanna esemplare.

Indubbiamente, l’azione della polizia e la successiva decisione di avviare un iter processuale, indicate dallo stesso Ahok, «come prova di democrazia», hanno più il sapore di un cedimento alle pressioni estremiste. Ma è anche vero che un giudizio di piena assoluzione toglierebbe ragioni a un radicalismo che fatica a trovare spunti per influenzare la vita del Paese.

Restano e timori di una escalation in vista delle elezioni locali del prossimo febbraio, che includono la carica di governatore di Giacarta, ma in bilico non è solo la sorte del governatore uscente che si è candidato per il secondo mandato. «L’economia sta crescendo, ci sono infrastrutture in lavorazione ovunque. Non lasciamo che tutto questo venga distrutto per l’ego di pochi», ha avvertito ieri Saidiman Ahmad, attivista della Rete islamica liberale.