«La disperazione politica di Hong Kong»

«La disperazione politica di Hong Kong»

Alla vigilia delle elezioni per il rinnovo dell’Assemblea legislativa della città – in programma domenica 4 – l’analisi di Lee Cheuk-yan, leader storico del movimento democratico. «Pechino ha fatto solo promesse. A questo punto la mia generazione si sente dire dai giovani che ha fallito e non sta assicurando a Hong Kong un futuro di prosperità e di libertà»

 

Leader storico del movimento democratico, sindacalista e parlamentare, incontriamo Lee Cheuk-yan a Hong a metà agosto in una pausa della campagna elettorale per il rinnovo del parlamentino della città (Legislative Council) il 4 settembre: “Abbiamo lottato per la democrazia sin dal tempo degli inglesi. Poi quando Hong è tornata alla Cina nel 1997 abbiamo cominciato a chiedere con insistenza al Partito comunista cinese l’autodeterminazione del territorio. Adesso siamo in una fase di confusione e quasi di disperazione politica e sociale”.

Perché?

Perché non abbiamo ottenuto niente. Pechino ha fatto solo promesse, prima per il 2007, poi per il 2012. Al momento giusto nulla si è concretizzato se non piccole concessioni. Per il 2017 hanno detto che avremmo potuto avere una democrazia più diretta per l’elezione sia del nostro Chief Executive (Primo ministro) che del Legislative Council, ma avrebbero controllato la selezione dei candidati. Pechino controlla l’80% dei seggi, per cui anche una maggioranza reale nell’elettorato del movimento democratico non ha nessuna possibilità di determinare le scelte e il futuro della città. Il processo elettorale viene svuotato dall’interno. A questo punto la mia generazione si sente dire dai giovani che ha fallito e non sta assicurando a Hong Kong un futuro di prosperità e di libertà.

Quindi i giovani cosa dicono?

Vedono la crisi economica, che stanno peggio dei loro padri, che non riescono a comprare casa, i prezzi salgono e il potere d’acquisto dei salari diminuisce, mentre i cinesi che arrivano dalla madrepatria sono ricchi e possono spendere. Vedono anche che sotto Pechino non c’è democrazia e autodeterminazione per il territorio. Tra l’altro i giovani non sono come noi, che sentiamo un forte attaccamento alla madrepatria perché i nostri genitori o noi stessi siamo venuti da là. Loro sentono di appartenere a Hong Kong non alla Cina. Quindi hanno cominciato a pensare che l’unica soluzione possibile è l’indipendenza. La Cina faccia come meglio crede. Ma noi andiamo avanti da soli.

È possibile?

Assolutamente no. Dipendiamo dalla Cina per l’acqua, per il cibo, per la difesa. Non abbiamo le nostre forze armate. Ma soprattutto Pechino mai permetterebbe ad una parte della Cina di separarsi. Nemmeno Taiwan dichiara formalmente l’indipendenza. Significherebbe l’invasione e la guerra. L’opinione indipendentista comunque cresce. Secondo alcuni rilevamenti sarebbe al 17%, ma tra i giovani la percentuale è certamente molto più alta. La gente è divisa, comincia persino a odiarsi anche all’interno delle famiglie tra chi è favorevole a Pechino, per convinzione, realismo o convenienza e chi invece vorrebbe separarsi.

Quali saranno le conseguenze di questo scenario sulle elezioni del 4 settembre?

Non cambierà molto dal punto di vista della composizione del Consiglio Legislativo essendo in buona parte formato per cooptazione. Ma per il movimento democratico rischia di essere una catastrofe politica, perché siamo divisi come mai prima in tante liste sempre più scettiche nei confronti di Pechino e sempre meno fiduciose in una possibilità di intesa. Se non siamo uniti nel voto però rischiamo di perdere anche la piccola rappresentanza simbolica che abbiamo avuto in questi anni. Nel 2012 abbiamo conquistato 18 dei 35 seggi che erano in palio per votazione diretta. Veramente non sappiamo dove andremo a finire. Per trattare con Pechino ed ottenere qualsiasi cosa dobbiamo essere uniti.

I giovani torneranno a protestare in strada come due anni fa?

Non possiamo saperlo adesso. La protesta purtroppo potrebbe ripresentarsi anche in modo più radicale e violento. Ma ne seguirebbe un più dura repressione.

Come va l’economia di Hong Kong?

Potremmo dire che nel complesso va abbastanza bene. Ma c’è un problema strutturale. E’ troppo incentrata attorno al settore finanziario, che non crea occupazione e non produce ricchezza per la popolazione. Hong Kong avrebbe bisogno di un settore manifatturiero specializzato per creare posti di lavoro. Ma i costi degli affitti per avviare un’attività imprenditoriale sono inaccessibili a tutti eccetto i miliardari. E a questi non interessa innovare, perché già spremono da Hong Kong i capitali che a loro interessano. Così la gente lavora dieci ore al giorno per sostenere la famiglia, ma i salari sono fermi a venti anni fa. Non abbiamo un sistema pensionistico pubblico per gli anziani. Solo cinque anni fa, dopo dieci anni di lotte, siamo riusciti a far passare la legge sulla retribuzione minima giornaliera.

Vi occupate anche di libertà religiosa?

In Hong Kong non abbiamo problemi al riguardo. Ma la Cina ci preoccupa. Lavoriamo con l’ufficio Giustizia e Pace della diocesi di Hong Kong. Sotto l’attuale presidente Xi Jinping c’ è stato un peggioramento della situazione dei diritti umani in Cina. C’è più controllo e repressione. Siamo convinti però che la Cina abbia anche una società civile in grado di mobilitarsi. Il che già avviene a volte in opposizione ad alcuni progetti di sviluppo del governo che prevedono l’espropriazione di terreni agricoli.

È prevedibile un sistema multipartitico e democratico in Cina?

Ciò comporterebbe la caduta dell’attuale regime. Ma c’è da augurarsi che avvenga piuttosto per evoluzione interna; altrimenti sarebbe molto caotico e tragico. Potrebbe avvenire anche per semplici motivazioni di convenienza, magari motivazioni economiche, perché ci si rende conto che ci si può guadagnare di più con un altro sistema; o come è successo in Unione Sovietica che mantenere un certo apparato costa troppo e non ci sono più i mezzi. Ora è in atto una grande lotta di potere all’interno del partito. Xi Jinping si muove contro la corruzione, anche per liberarsi degli avversari e recuperare consenso popolare a se stesso e al partito. La gente non stima il partito. E’ la dinastia di turno. Una faccenda di potere e di privilegi. Noi di Hong Kong dobbiamo riuscire a cambiare la Cina prima che la Cina cambi noi.