La vigilia di Asia Bibi (e di tutti gli altri)

La vigilia di Asia Bibi (e di tutti gli altri)

Domani in Pakistan la Corte Suprema esamina il ricorso della donna accusata di blasfemia, in carcere dal 2009, su cui pende una condanna a morte. Ma dietro al suo caso ce ne sono anche molti altri

 

È prevista per domani l’udienza della Corte suprema del Pakistan che dovrà decidere sullla legittimità della condanna a morte per blasfemia della cattolica Asia Bibi.

Dopo la sospensione della pena capitale il 22 luglio 2015, la madre di cinque figli denunciata nel giugno 2009 da vicine musulmane e condannata alla pena capitale in prima istanza e in appello, è in attesa di conoscere in via definitiva quale sarà la propria sorte. Una conferma della condanna porterebbe forse alla prima esecuzione capitale in Pakistan per un cristiano accusato di blasfemia; vi è però una tenue speranza, anche all’interno della Chiesa pachistana, che la donna veda la fine di una vicenda unica per durata e complessità.

“Speriamo davvero che possa essere liberata”, ha segnalato l’arcivescovo di Lahore, mons. Sebastian Francis Shaw. Speranza espressa anche dall’avvocato Saif-ul-Malook, che ha rilevato la difesa dell’imputata dopo la conferma in appello della sentenza di primo grado. Una sentenza che per Malook – che ha accettato l’incarico consapevole dei rischi e già più volte minacciato – è stata influenzata da vari fattori, non solo dalla fede cristiana di Asia Bibi. “Ora – prosegue il musulmano Malook – ho forti speranze che possa essere rilasciata”.

Mentre fonti cristiane segnalano che gruppi anche di orientamento talebano stanno preparando manifestazioni all’esterno della sede della Corte suprema nella capitale Islamabad, anche Tahir Chaudhry, presidente dell’Alleanza pachistana per le minoranze, ha confermato che la pressione sui giudici da parte degli estremisti sarà enorme, ma che spera che la Corte suprema ordini il rilascio della donna.

Una donna coraggiosa, Asia Bibi, sostenuta da una fede solida pur se provata da oltre sei anni di carcere. Consapevole che se pure i giudici supremi dovessero decidere la sua libertà, la sua vita e quella dei suoi familiari costretti finora a vivere nascosti per timore di rappresaglie, sarebbero comunque a rischio di una vendetta degli estremisti. Non a caso oggi una coalizione di 150 mullah sunniti ha chiesto con una fatwa la sua esecuzione immediata e con lei quella di tutti i 17 condannati per blasfemia rinchiusi nei bracci della morte delle carceri pachistane. Altre decine sono sotto processo e – cosa ancora più inquietante – non solo da parte di tribunali comuni, ma anche delle corti militari che sono state istituite per contrastare il terrorismo ma sempre più sono chiamate a giudicare reati di particolare gravità o rischio per la comunità.

Il più noto tra i battezzati sotto processo è il sedicenne Nabeel Masih, denunciato da alcuni coetanei musulmani per avere condiviso su Facebook una foto considerata offensiva della Kaaba, l’edificio al centro della Grande moschea Mecca. L’8 ottobre, durante la presentazione della richiesta di libertà su cauzione, i suoi difensori sono stati insultati e minacciati da decine di estremisti che hanno anche indicato senza ambiguità la volontà di portare Nabeel al patibolo e di punirne esemplarmente l’intera famiglia. All’interno dell’aula, durante l’udienza, i legali dell’organizzazione The Voice, attiva a fornire tutela legale a accusati di pratiche blasfeme attraverso il mezzo informatico, hanno subito una dura aggressione verbale dell’accusa, senza che il giudice intervenisse.

Altro caso noto, quello trattato nel tribunale di Gujranwala, come nei casi precedenti nella provincia del Punjab. A rischiare l’esecuzione con un procedimento affidato a una corte militare sono i cristiani Anjam e Javed Naz, indagati con il musulmano Jafar Ali in un caso di truffa e finiti sotto l’accusa infamante di offesa alla fede islamica. In attesa dell’appello, il loro caso, attivato da una denuncia solo il 15 maggio scorso, evidenzia ancora una volta la facilità con cui viene individuato il reato di blasfemia, nonostante la severità dei giudizi e i rischi a cui espone gli accusati.

Benché si tratti di un caso particolare, la vicenda di Gujranwala evidenzia come tra gli accusati la percentuale di non musulmani sia troppo elevata. In un paese al 97 per cento musulmano, le statistiche del 2013 riportano che su 36 individui rinviati a giudizio per blasfemia una trentina erano membri delle minoranze, tra cui 12 cristiani.

Negli ultimi anni si sono intensificate le pressioni per l’abrogazione o la modifica della “legge antiblasfemia” (gli articoli 295B e 295C del Codice penale che rendono rispettivamente reato la profanazione del Corano e l’insulto al profeta Maometto, a Allah e al Corano). Punibili, gli ultimi due, con la morte di chi sia riconosciuto colpevole. Dopo la condanna europea per la situazione persecutoria, nel rapporto periodico sul Pakistan pubblicato il 26 agosto, la Commissione Onu per l’eliminazione della discriminazione razziale ha chiesto a Islamabad di abrogare la legge deplorando “l’elevato numero di casi di blasfemia basati su false accuse e mancanti di relative indagini e azioni penali”, mentre “i magistrati che giudicano i casi si trovano a subire intimidazioni, minacce di morte e omicidi”.