Laos: cambiare tutto per non cambiare niente

Laos: cambiare tutto per non cambiare niente

Il Laos cambia presidente e premier ma le elezioni – come al solito senza consultazione popolare – non fanno altro che confermare la stasi del Paese, che favorisce lo sviluppo economico ma frena ogni miglioramento sul fronte dei diritti umani e della libertà religiosa.

Il Laos cambia per non cambiare, ma la sua leadership lancia un’offensiva diplomatica per consolidare vecchi rapporti e attirare nuovi investimenti.

Il 20 aprile l’Assemblea nazionale laotiana ha eletto alla presidenza del Paese il segretario generale del partito comunista in carica da gennaio, Bounnhang Vorachit, e il ministro degli Esteri Thongloun Sisoulith come primo ministro. Scelte che – prese come al solito al di fuori di ogni consultazione popolare – confermano la stasi politica e il controllo del partito unico al potere dalla fine del conflitto indocinese nel 1975.

C’è voluta meno di un’ora per la nomina e la votazione dei due candidati unici per le massime cariche del paese, come successo anche per l’elezione delle posizioni più elevate nel partito. La stabilità è stata ancora una volta propagandata come essenziale per perseguire le politiche sociali e economiche che da alcuni anni stanno segnando il Paese, incentivando un moderato sviluppo interno ma ancor più garantendo al piccolo e geograficamente isolato Laos e ai suoi 7 milioni di abitanti una delle più elevate crescite economiche del continente asiatico, mediamente del 7 per cento nell’ultimo decennio.

Una crescita dovuta, come conferma la Banca Mondiale, per un terzo allo sfruttamento delle risorse naturali, soprattutto energia idroelettrica e legname, di cui hanno beneficiato non solo il partito, l’apparato militare e gli interessi a essi legati – a loro volta connessi con gli interessi cinesi, sempre più rilevanti e ingombranti – ma anche disponibilità di elettricità, telecomunicazioni, assistenza sanitaria e redditi.

Se il partito rappresenta l’eredità più persistente del lungo e sanguinoso conflitto combattuto qui soprattutto per procura – quella che per gli Usa fu una “guerra segreta” con un massiccio utilizzo del mezzo aereo e di infiltrazioni mirate sul terreno, la presenza di un gran numero di ordigni inesplosi e di sostanze tossiche ricordano che tra il 1964 e il 1973 sul paese furono sganciate circa due milioni di ordigni che ne hanno fatto l’area più bombardata del pianeta. Ancora un’ipoteca per molte aree, in particolare agricole, ma anche per quelle con potenziali di sviluppo commerciale o turistico.

I rapporti con l’antico avversario statunitense sono andati distendendosi negli ultimi tempi e la relativa apertura verso Washington, che ha visto l’incontro a gennaio del segretario agli Esteri Usa, John Kerry con l’allora premier Thammavong e di quello attuale a febbraio con Barack Obama negli Stati Uniti, sarà concretizzata dalla prevista visita del presidente americano il prossimo settembre nel contesto del vertice dei paesi dell’Associazione delle nazioni del Sud-Est asiatico (Asean) di cui il Laos ha assunto quest’anno la presidenza di turno.

Pochi i cambiamenti attesi dagli osservatori dalla nuova leadership e poche le aperture probabili sul fronte di partecipazione, diritti umani e libertà civili che coinvolgono anche le religioni del paese, inclusa la minuscola Chiesa cattolica, i cui quattro vicariati apostolici gestiscono circa 70mila battezzati su 150mila cristiani complessivi.

Come ricorda Phil Robertson, responsabile per l’Asia di Human Rights Watch, «la storia della libertà religiosa nel Paese lascia molto a desiderare, soprattutto quando si parla di pressioni e repressione inflitte a ogni congregazione o gruppo che non sia stato ufficialmente autorizzato a operare». «Data l’approssimazione del Decreto sulla pratica religiosa, che rende fuorilegge ogni pratica religiosa che secondo le autorità possano ritenere creino ‘divisione sociale’ o ‘caos’, senza però definire chiaramente questi termini, ne risulta una concreta impunità per i funzionari locali che perseguono i gruppi religiosi minoritari a loro volontà».

Non a caso, nel suo rapporto diffuso il 17 aprile, Reporter senza frontiere ha posto Laos al 173° posto sul 180 paesi considerati per quanto riguarda la libertà d’informazione.