Mindanao: l’anno che doveva portare la pace

Mindanao: l’anno che doveva portare la pace

Da tempo appare chiaro che il percorso verso la pace nel sud delle Filippine va restringendosi. In un conflitto che in 40 anni ha provocato 120.000 morti e coinvolto il 40% della popolazione locale. 

 

Ormai in piena prospettiva elettorale, nella distrazione delle festività di fine anno e con una parte consistente dell’arcipelago messa in ginocchio dai recenti tifoni, i filippini vivono con distacco, rassegnazione e preoccupazione la situazione del loro meridione.

La ripresa delle ostilità al volgere dell’anno si affianca al rischio che il processo di pace avviato da tempo e che avrebbe dovuto concretizzare entro aprile, inestricabilmente, pace e autonomia per le aree a maggiore concentrazione musulmana si blocchi o addirittura di annulli in una ripresa indiscriminata del conflitto tra gruppi di ispirazione islamica e forze governative.

Da almeno due settimane è in corso l’offensiva delle truppe regolari e dei reparti speciali contro le roccaforti del gruppo Abu Sayyaf, per anni indicato come referente di Al Qaeda nella regione e ora orientato verso un’unità di intenti con l’auto-proclamato Stato islamico-Daesh. Un’azione militare che ha come obiettivo immediato anche la liberazione di ostaggi, catturati come prassi del gruppo, per autofinanziarsi con congrui riscatti, ma che potrebbe portare a una escaltion del conflitto sempre latente.

Contemporaneamente, con un acuto nel massacro di Natale di nove civili i guerriglieri del Fronte islamico dei combattenti per il Bangsamoro (patria islamica), Biff, meno noto rispetto a Abu Sayyaf, ma ancora più nutrito quanto a militanti, ha aperto un nuovo fronte di contrasto alla presenza governativa e alle intenzioni di una pace duratura per cui il presidente Benigno Aquino si è impegnato fortemente nell’ultimo biennio del suo mandato.

I sette agricoltori i due fedeli in preghiera uccisi dal guerriglieri rispettivamente nella provincia di Sultan Kudarat e in quella di Nord Cotabato sono solo le ultime vittime – insieme ai cinque militanti vittima della reazione militare – di un conflitto che ha in un quarantennio provocato 120.000 morti e coinvolto il 40% della popolazione locale.

Per mettere fine a questo conflitto il governo ha avuto come interlocutore negli ultimi anni il Fronte islamico di liberazione Moro (Milf), maggiore formazione armata dell’indipendentismo islamista dopo il disarmo e poi una ripresa di iniziativa negli ultimi tempi ma ancora limitata del Fronte nazionale di liberazione Moro.

Proprio dal Milf si è scisso nel 2008 il Biff – che ha dichiarato recentemente la propria fedeltà a Daesh – che si propone ora come principale antagonista delle forze armate filippine dopo che i guerriglieri del Milf hanno dichiarato una tregua che li impegna anche a escludere dalle aree sotto il loro controllo altre fazioni combattenti.

Da tempo, tuttavia, appare chiaro che il percorso verso la pace, che sembrava ormai aperto va restringendosi. Le forze in gioco, infatti sono molteplici. Gli interessi interni alla comunità musulmana in contrasto o in alleanza con quelli in gioco nella lontana Manila, le rivalità e alleanze interno al movimento armato, le azioni della guerriglia e le risposte armate che tengono alta la tensione, le necessità insieme di prestigio e di ruolo nel paese dei militari, la presenza di vasti interessi economici in parte locali in parte stranieri che si avvalgono anche dell’ordine precario e dalla violenza per consolidarsi.

In mezzo, una popolazione di almeno 25 milioni, a sua volta combattuta tra necessità di pace e progresso e rivalità ataviche che coinvolgono musulmani di antica presenza nel Sud dell’arcipelago, gruppi tribali e immigrati cristiani ora predominanti. In maggioranza ugualmente poveri e privi di prospettive, sottoposti alla pressione del potere, del denaro e delle armi.