AL DI LA’ DEL MEKONG
«Il miracolo della fede»

«Il miracolo della fede»

Il racconto di Saophiep: «In me non c’è la fede e poi forse la vocazione; in me la fede e la vocazione sono un tutt’uno». Questa ragazza che ha studiato nel nostro ostello non mi ha dimostrato niente, ma mi ha mostrato che il Signore è risorto/vivo e attrae, persuade, affascina, chiama anche oggi

 

Ma chi placa
l’angoscia d’essere, il pianto del cuore, (…)
L’ansia dell’uomo che va sulla terra
non è di terra…
” Ugo Fasolo

Da qualche settimana, in questo tempo pasquale, cerco per la mia gente e per me (!) segni di resurrezione. Non riuscendo a spiegarne il mistero, mi impegno almeno a cercarne le tracce e puntualmente non devo aspettare molto. Qualcosa succede, qualcuno mi viene incontro. Non tanto per spiegarmi quel che è successo duemila anni fa, quanto per mostrarmi che succede ancora oggi.

Ieri, per esempio, mi è venuta incontro Saophiep, giovane donna di 25 anni che ho conosciuto nel settembre del 2009 quando venne ad iscriversi al nostro liceo di Prey Veng. In altre precedenti lettere vi ho raccontato di alcuni nostri ex-alunni e dei traguardi da loro raggiunti. Ora vi racconto di Saophiep, del suo cammino di fede, tanto sorprendente quanto inspiegabile. Quando venne ad iscriversi presso la nostra scuola ormai 9 anni fa, decidemmo di accoglierla per due motivi: Saophiep era l’ultima di otto figli e papà e mamma erano semplici contadini. Quindi, nonostante i poco convincenti risultati del test di ingresso, non potevamo trascurare la sua situazione famigliare e il fatto che manifestasse una gran voglia di studiare.

Fu quindi accolta all’ostello delle ragazze adiacente all’ostello dei ragazzi, nell’appena nata parrocchia cattolica di Prey Veng. In famiglia, Saophiep non aveva ricevuto alcuna educazione cristiana. Degli otto fratelli solo una sorella si era avvicinata alla fede, ma senza particolari conseguenze per la vita degli altri sette. Papà e mamma, pur sapendo della presenza di comunità cattoliche, non avevano mai manifestato particolari interessi. Erano e sono buoni buddisti come tanti altri, in questo piccolo Paese del sud-est asiatico. Entrando all’ostello Saophiep rimase affascinata dalla vita comune, dalla preghiera (dirà più tardi) e dalla possibilità di un ordine condiviso a vantaggio di tutti. A scuola invece, non solo si impegnò appieno, ma contribuì anche all’intesa tra i compagni di classe per il bene di tutti. La sua classe rappresenta per la scuola la seconda generazione di studenti. A distanza di anni, di generazione in generazione, cominciamo ormai a perdere il conto degli studenti che sono passati da noi.

Tornando a Saophiep, qualche mese dopo l’ingresso all’ostello, espresse alla suora il desiderio di voler conoscere più da vicino il Cristianesimo, la figura di Gesù e la possibilità di una dedizione totale. Capita spesso nei nostri ostelli di avere a che fare con desideri di questo tipo, espressi da chi non è cristiano ed è lontano dal diventarlo. La vita comune fa sempre la differenza. La condivisione del tempo, del cibo, di una comune ricerca di senso, così come la determinazione a fare bene le cose, un passo alla volta, consentono loro di intuire potenzialità fino ad allora rimaste inespresse. Questi motivi spesso li aiutano per la prima volta a leggere la loro vita come “un progetto”, con una partenza, un cammino e un destino buono. A questo si aggiunge anche la scuola che, se funziona, esalta la naturale proiezione in avanti dei ragazzi, trasformando la vita in un’avventura gustosa, dove il sapere diventa anche sapore. Tutto ciò però rimane possibile grazie ai piccoli numeri e alla vita comune che salva i ragazzi da quella progressiva atomizzazione che li rende individui soli e non più persone…

Immagino quindi siano stati questi i motivi che convinsero Saophiep a manifestare un primo interesse per la fede cristiana. Tant’è però che alla fine della scuola dopo l’esame di maturità, Saophiep decise di proseguire la sua carriera scolastica e con una borsa di studio si iscrisse alla facoltà di legge a Phnom Penh, facendo quasi del tutto perdere le sue tracce. Lasciò l’ostello di provincia, affittò una stanza in città, cominciò a frequentare l’università “abbandonando completamente il cammino di fede” – racconta. “All’ostello era facile, quasi automatico con la suora a portata di mano e un orario di vita comune – continua Saophiep – mentre a Phnom Penh cominciai a vivere da sola, a frequentare le lezioni, senza tempo ne richiamo per le questioni di fede”. Anzi “per un certo periodo pur sentendo qualcosa, vivevo nell’illusione di potermi arrangiare, come se la fede fosse mia e basta”. “Non sentivo l’esigenza di manifestare queste cose esteriormente, perché mi bastava un interiore rimando a quel Gesù che avevo incontrato all’ostello di Prey Veng”.

Dopo quattro anni di studio e la laurea ottenuta nell’agosto del 2016, Saophiep decide di cercarsi un lavoro e lo trova, inizialmente come stagista, presso una organizzazione non governativa che si occupa di offrire assistenza legale a chi non se lo può permettere. In Cambogia la giustizia è ancora pesantemente compromessa dal potere del denaro. “Chi ne ha, trova sempre il modo per farla franca – mi racconta Saophiep – per questo ho voluto cercare subito qualcosa che mi consentisse di toccare con mano che la giustizia è un sogno possibile”. Quanto all’organizzazione, l’International Bridge to Justice, se all’inizio poteva garantire un’assistenza legale gratuita, ora il pesante taglio dei finanziamenti dall’estero rende necessario il contributo finanziario degli assistiti. “Eppure – mi racconta Saophiep – per quanto non mi potessi permettere di lavorare gratis, lo facevo per l’ideale di giustizia che ancora mi porto dentro”. “Ma ad un certo punto non ho potuto più resistere. Non so come altrimenti descriverlo. Nella mia vita è avvenuto il miracolo della fede”, così Saophiep mi descrive “quello che da tempo mi premeva da dentro”: “un istinto di affidamento a Gesù”.

“Mi sono chiesta tante volte – continua – perché nei momenti di fatica e paura, durante lo studio nella solitudine della città, non fossi ricorsa al Budda, certamente più accessibile e famigliare, ma non so rispondere”. “In me il segno della croce accadeva prima”. “Di giorno e di notte, in ogni istante di fatica facevo il segno della croce. Quel segno era tutto quello che sapevo fare. Era la mia preghiera e la mia speranza in ogni momento”. “Fu in quegli innumerevoli istanti di affidamento che capii in quale direzione avrei dovuto muovermi. Ora vorrei ricevere il sacramento del Battesimo, diventare cristiana e consacrarmi a Dio”. “In me non c’è la fede e poi forse la vocazione; in me la fede e la vocazione sono un tutt’uno”. Saophiep, nella sua semplicità mi ricorda un altro grande convertito, Charles De Foucauld. In una lettera del 14 agosto 1901, Charles esprimeva la stessa semplice verità, “la mia vocazione religiosa è nata insieme alla mia fede: Dio è così grande!”. “Si, con il senno di poi, mi sembra ci sia stato un inseguimento, che Gesù mi abbia inseguita fino a qui” – mi dice Saophiep. “Non ho fretta perché la strada mi è chiara. La giustizia che cerco è questa”.

Sono rimasto senza parole, perplesso. Ho cercato di dirle che il cammino è ancora lungo, quasi per prepararla agli ostacoli futuri, ma immediatamente il suo sorriso si è fatto serio: “lungo o corto, il cammino è questo, questo mi dice la fede e a questo mi affido”. “Non chiedermi altro – ha aggiunto, quasi congedandomi – non saprei dirti di più, l’ho definito il miracolo della fede perché non viene solo da me o dalla mia storia famigliare, ma viene da Gesù. Avrei potuto scegliere la mia tradizione religiosa, ma ogni volta che cercavo un appoggio nella mia vita, almeno negli ultimi quattro anni, la croce, il segno della croce, mi sorprendeva prima di ogni altra possibilità e mi segnavo”.

Saophiep non mi ha dimostrato niente, ma mi ha mostrato che il Signore è risorto/vivo e attrae, persuade, affascina, chiama anche oggi.

L’ho lasciata raccontandogli di suor Teresa Chao, una sorella di origine vietnamita che ha alle spalle più di vent’anni di consacrazione religiosa. L’ho conosciuta più da vicino per via di un ritiro che ho predicato alle suore della mia diocesi alcune settimane fa. Durante l’ora di adorazione quotidiana prevista dal programma, mercoledì 3 maggio, Teresa, seduta di fronte al Santissimo Sacramento, ha cominciato a piangere. Lì per lì mi sono spaventato perché sembrava stesse avendo una crisi respiratoria. In realtà cercava di trattenere le lacrime senza riuscirvi. Alcuni giorni dopo, gli ho chiesto che cosa fosse successo. Mi ha raccontato che, ormai più di vent’anni fa, “prima di entrare” avrebbe voluto sposarsi e chiedeva “di poter incontrare un uomo gentile, mite, semplice”. L’esperienza positiva della sua famiglia con mamma, papà e otto, tra fratelli e sorelle, gli faceva desiderare lo stesso per sé. Poi invece la chiamata, l’entrata in convento, la consacrazione e la missione in Cambogia! In quel momento di fronte all’Eucarestia, Teresa aveva improvvisamente riconosciuto in Gesù quell’uomo “gentile, mite, semplice” che avrebbe voluto sposare. Stava finalmente lì di fronte a lei! E ha sentito in quel momento come mai prima che la sua richiesta era stata esaudita: Gesù si manifestava a lei come quell’uomo “gentile, mite, semplice” che cercava, e per questo ringraziava lo Sposo. Ah, “… il pianto del cuore” … “l’ansia dell’uomo che va sulla terra / non è di terra…”. Ciao

padre Alberto