Okinawa l’isola delle sciamane

Okinawa l’isola delle sciamane

Buddhismo, shintoismo, ma anche cristianesimo. Le isole Ryukyu del Giappone sono un interessante “laboratorio” culturale e religioso. Dove le donne continuano a mantenere un ruolo di primo piano

 

“Okinawa – il lato tropicale del Giappone”, recita in inglese un dépliant turistico. Lo slogan è azzeccatissimo: a due ore e mezzo di volo da Tokyo in direzione sud, si estende un arcipelago di oltre 150 isole, dalla vegetazione rigogliosa e dalle acque cristalline. Sono le Ryukyu, entrate a far parte del Giappone solo nel 1879, dopo 450 anni di storia come regno autonomo, che intratteneva rapporti politici e commerciali anche con la Cina e la vicina Taiwan.

Okinawa, l’isola principale, grazie al turismo ha smesso di evocare solo una delle battaglie più sanguinose della Seconda guerra mondiale, che lasciò sul terreno 200 mila morti, di cui più della metà civili. Un’ecatombe, anche paragonata allo scempio dell’atomica (a Hiroshima morirono 100 mila persone).

Occupata dopo il conflitto dagli americani e restituita al Giappone nel 1972, l’isola continua a ospitare il 74 per cento delle basi militari statunitensi, che non mancano di suscitare frizioni fra la popolazione locale e le autorità centrali, alimentando un desiderio di autonomia.

Gli okinawani, pur sentendosi giapponesi, rivendicano un’identità distinta, soprattutto culturale. Hanno la loro lingua, sono gelosi delle loro tradizioni e piuttosto conservatori.

Ma, rispetto al resto del Giappone che continua a presentare una società maschilista, a Okinawa le donne hanno una marcia in più. Una legittimazione che ha radici lontane: la cosmogonia locale, infatti, attribuisce la nascita delle isole Ryukyu a una divinità creatrice femminile, Amamikiyo. In Giappone, invece, lo shintoismo affida lo stesso ruolo a una coppia divina, Izanami e Izanagi.

La vicinanza geografica ha portato da tempo immemorabile sull’isola le due religioni nipponiche prevalenti, il buddhismo e lo shintoismo. Dopo la guerra, la presenza dei militari americani ha favorito la diffusione del cristianesimo: oggi il 4 per cento degli abitanti locali sono cristiani, contro il 2 per cento del resto del Giappone. Tracce della spiritualità autoctona, che attribuisce un ruolo fondamentale alle donne, continuano tuttavia a sopravvivere anche nel XXI secolo, rendendo questa terra un interessante melting pot da un punto di vista religioso.

Nella tradizione locale, il ruolo di intermediazione con il divino è affidato a una figura chiamata yuta. Si tratta per lo più di donne sciamane, alle quali la popolazione si rivolge tuttora per farsi predire il futuro, ricevere spiegazioni sulla propria sorte, far recitare preghiere per la ricchezza e per la salute, e per entrare in contatto con il mondo dei morti. Non è chiara l’origine dello sciamanesimo nelle isole Ryukyu, ma sicuramente ci sono influssi dalla vicina Oceania e dall’Asia, dove ha radici storiche importanti in Mongolia, Siberia e Corea.

Avvicinare un monaco buddhista o un sacerdote shintoista è facile a Okinawa, come nel resto del Giappone. Ma parlare con una sciamana è un’impresa complicata. Per ritrosia e riservatezza delle dirette interessate, che non hanno voglia di esporsi alla curiosità di estranei. Forse anche perché, dopo l’annessione al Giappone, la religione locale è stata spesso oggetto di critiche. Ho avuto l’opportunità di vedere una sciamana durante un rito religioso al tempio di Shuri Kannon Do a Naha, il capoluogo di Okinawa. Si tratta di un tempio buddhista, dedicato al bodhisattva della compassione. Senza l’aiuto della mia guida locale, non l’avrei mai identificata. Era una donna di mezza di età, vestita normalmente, intenta a recitare preghiere seduta vicino a un’altra donna, colei che l’aveva ingaggiata. Davanti a loro, un vassoio, contenente del riso, un’arancia (offerta riservata alle donne), del sale, acqua e un liquore locale.

Per un cristiano può sembrare bizzarro vedere una sciamana in un tempio buddhista. Le religioni monoteiste richiedono una fedeltà esclusiva: Dio è uno solo e non si aderisce a più credi religiosi contemporaneamente. Per un giapponese, invece, questa scena non ha nulla di strano. Il buddhismo, con le sue numerose sette, convive da secoli con lo shintoismo, una fede religiosa immanentista, che colloca le divinità in diversi luoghi della natura. In questa visione sincretica, un giapponese può chiedere di sposarsi con rito cristiano, partecipare alle festività shintoiste e ricorrere a un monaco buddhista per il suo funerale, senza percepire il suo comportamento come schizofrenico. Anche a Okinawa lo sciamanesimo ha trovato un modus vivendi con le altre fedi religiose.

Come si diventa yuta? Secondo gli studiosi, ci sono diversi passaggi. «Il processo inizia quando l’individuo è posseduto da uno spirito e manifesta una serie insolita di sintomi fisici e mentali, come allucinazioni visive o uditive, sonnambulismo, malattie croniche, insonnia, calo dell’appetito», scrive in un saggio Yoshimasa Ikegami. «Questi sintomi sono il segnale che un antenato o una divinità (chiji) vuole essere adorato o preso in considerazione. Se la persona posseduta accetta la chiamata a diventare sciamano, gli effetti negativi diminuiscono gradualmente e si tramutano in poteri spirituali. Il chiji diventa lo spirito guardiano del nuovo sciamano».

La religione autoctona okinawana attribuisce grande importanza ai luoghi sacri, chiamati utaki. Nelle isole dell’arcipelago ce ne sono vari, alcuni più importanti di altri. In teoria, ogni villaggio è costruito in prossimità di un utaki. Può essere una grotta o una sorgente, un luogo nascosto alla vista dei fedeli, per esempio dietro a una porta che viene aperta solo durante particolari riti. Quando l’arcipelago fu unificato nel XV secolo, la famiglia reale stabilì che il trono doveva essere maschile, ma la sorella del sovrano venne posta sul gradino più alto della gerarchia religiosa, con il titolo di kikoe ogimi. A lei spettava presentare le offerte alle divinità, a nome del re. In alcune cerimonie notturne, per poter accedere a determinati luoghi sacri, a dimostrazione del potere femminile il re veniva fatto vestire da donna.

In passato, nei villaggi okinawani esistevano le noro, le sacerdotesse che avevano il compito di comunicare con gli spiriti, prendersi cura dei raccolti e svolgere determinate cerimonie ufficiali. Secondo la studiosa Monica Wacker, che ha indagato il potere spirituale femminile a Okinawa, le donne avevano un ruolo chiave, anche se la discendenza nelle famiglie si trasmetteva in linea paterna. Potevano elargire maledizioni o benedizioni, la più anziana era responsabile della preghiera presso l’altare di famiglia e di riti legati alla produzione agricola.

Il Sefa Utaki è uno dei luoghi sacri più importanti delle Ryukyu. Oggi è riconosciuto dall’Unesco come patrimonio dell’umanità e invaso dai turisti, a volte rumorosi e irrispettosi. D’altronde, non è facile capire perché mai un’apertura triangolare in una roccia, che si raggiunge dopo una breve camminata in un bosco, sia così rilevante. Nei secoli, 17 kikoe ogimi sono venute qui nel corso della loro vita a officiare i riti più importanti per il regno. Agli uomini era proibito l’accesso, persino al re: solo le sacerdotesse potevano oltrepassare una data soglia – segnata da alcuni sassi – per accedere all’utaki. Dal luogo più sacro, sulla sinistra, si intravede l’isola di Kudaka, dove tuttora ogni 12 anni si svolge la cerimonia izaho, alla quale partecipano solo le donne. Il rito fu interrotto negli anni della guerra, ma è stato ripreso subito dopo, suscitando grande interesse fra gli antropologi. A destra dell’entrata triangolare, ci sono due stalattiti da cui cadono gocce d’acqua sacra, raccolta in due vasi: serviva a predire il futuro per la kikoe ogimi ed era impiegata nei riti del nuovo anno.

Grazie all’importanza che la religione ha attribuito per secoli alle donne all’interno della famiglia e nella società, non c’è da stupirsi se anche oggi le okinawane sono in genere più intraprendenti delle altre giapponesi. Nel Nord dell’isola, per esempio, i villaggi si svuotano dei giovani maschi, che vanno a Sud a cercare lavoro. Le donne reggono da sole le sorti della famiglia, e a volte mettono in piedi attività di successo. Un esempio per tutti: Toshiko Taira, 96 anni, insignita del titolo di “tesoro vivente nazionale”. Nel dopoguerra, ha ridato vita attraverso una squadra tutta femminile all’antica arte del bashofu, un tessuto ricavato dalle fibre di banano.

Le donne sono molto presenti nel mercato del lavoro a Okinawa. Anche perché gli stipendi nelle Ryukyu sono mediamente più bassi che nel resto del Giappone a parità del costo della vita, per cui è necessario lavorare in due per mantenere una famiglia. E se la coppia si sfascia – la passione degli uomini locali per l’alcol contribuisce al fenomeno – le okinawane si separano più facilmente rispetto alle altre giapponesi. Non solo perché sono più autonome dal punto di vista economico, ma anche perché la famiglia d’origine aiuta maggiormente le figlie. Se a Tokyo i genitori considerano un disonore avere una figlia divorziata, a Okinawa sono più disposti ad accoglierla insieme ai bambini e a sostenerla