Rolando e le Filippine: che cosa li lega davvero

Chi è Rolando Del Torchio, l’ex missionario rapito ieri a Mindanao? E che cosa lo ha spinto a tornare a Dipolog dopo aver lasciato il Pime? Vogliamo proporre una sua riflessione che – quando era ancora sacerdote – aveva scritto nel 1999 per il blog dei missionari del Pime nelle Filippine. Crediamo che racconti bene chi sia lui, quanto forte sia il legame con il Paese in cui aveva scelto di vivere e – nella parte finale – esprima bene anche l’augurio di tutti noi rispetto a questo nuovo rapimento a Mindanao.

 

È risaputo che quando ho qualche impegno e devo usare la mia moto, piove.
Credo che dieci anni di missione mi abbiano fatto crescere in tante cose ma hanno anche arricchito il mio vocabolario contro il governo incompetente e corrotto.

Bastano dieci minuti di pioggia e le strade diventano risaie o saponate da mettere a dura prova qualsiasi pilota di motocross.
I pantaloni prima si bagnano poi s’infangano per finire a confondersi con il colore sporco della moto. Quando arrivo a destinazione sono un mostro di fango e di rabbia: non è possibile parlare di sviluppo senza strade decenti, dobbiamo sprecare ore per raggiungere un villaggio per sbrigare faccende che richiederebbero dieci minuti. Viaggi così hanno il potere di annebbiarmi la vista e l’intelletto e innescano la solita litania di sospiri che scoraggia chiunque dall’avvicinarmi o rivolgermi la parola.

Di solito quando la bile mi scoppia rallento, e dove c’e’ un po’ di riparo mi fermo.
Le mani si liberano dai guanti per raggiungere la solita sigaretta che ha il potere di portare via pensieri cattivi.
L’altro giorno però, dopo aver preso la solita lavata, il mio umore era diverso e al riparo di un gigantesco mango mi sono ritrovato a ridere con me stesso.
Dalle quattro case spelacchiate vicine al mio luogo di riposo, una selva di sguardi ingombranti si domandavano cosa facesse in giro, sotto a quel diluvio, questo bianco un po’ strano.

La strada era la stessa che avevo percorso con un gruppo d’italiani piombati da queste parti, togliendomi il casco e guardando la curva là in fondo, mi sembrava di rivedere i quattro in macchina con la loro raffica di domande, cosi’ petulanti e curiosi che ti obbligano, mentre guidi, a scegliere le parole giuste tra il groviglio di lingue che ingarbugliano la mente.
Ma qualcosa di diverso solitamente accade, si dimenticano rabbie e improperi e ci si lascia andare nell’affanno di far capire come qui in fondo tutto sia normale.

Il fango diventa strumento per un’eroico servizio alla gente, i mezzi sgangherati che ti bloccano la strada, simbolo dell’ingegno filippino e gli sguardi invadenti a cui nulla sfugge, segni dell’ospitalità del posto.
La casa semplice che ti ospita, nonostante le zanzare che non ti lasciano in pace, è la prova tangibile che non hai paura dell’adattamento e dell’inculturazione.
Sì quando ci sono ospiti in giro tutto diventa più bello e leggero e anche il Padre Eterno diventa più simpatico perché in fondo ti ha messo a vivere in un paradiso.
In fondo l’abitudine addormenta lo sguardo semplice, le fatiche ti stravolgono a pensare che le vivi solo tu e non ti accorgi più che tanti come te hanno già fatto buon viso a cattiva sorte.

Un sasso chissà da dove mi rotola vicino alla scarpa lo scaccio via come faccio di solito con quelli che vogliono caricare la nostra gente ancora di penitenze e digiuni, la vita è già difficile gli vogliamo togliere anche la capacità di sorridere e sperare?

Risalgo sulla moto e aggiustandomi il casco rivedo il mare blu, i bimbi ora schiamazzano vicino alla strada, riprendo a correre con il cuore più leggero, gli ospiti non ci sono più è rimasta la pace della vita di questa penisola che continua a vivere nostante tutto, continua a ridarti un sorriso ricordandoti che il fango non conta un granché, che il governo può fare quel che vuole, quel che conta è quello che sei tu che soppravvivi e godi delle piccole cose che in fondo sono quelle che ami di più.