Tre anni di carcere per la denuncia sugli schiavi della frutta «made in Thailandia»

Tre anni di carcere per la denuncia sugli schiavi della frutta «made in Thailandia»

Il britannico Andy Hall aveva denunciato lo sfruttamento della manodopera nell’industria della lavorazione della frutta, in buona parte destinata all’esportazione verso l’Europa. La giustizia thailandese, dopo una denuncia del colosso locale National Fruit, l’ha condannato per diffamazione e reati informatici

 

Perplessità per la condanna a quattro anni di reclusione per diffamazione e reati informatici (ridotta a tre anni per buona condotta e l’impegno sociale) comminata il 20 settembre a Bangkok a Andy Hall, cittadino britannico, attivista per i diritti dei migranti che tre anni fa aveva denunciato lo sfruttamento della manodopera nell’industria della lavorazione della frutta, in buona parte destinata all’esportazione verso l’Europa. Fonti europee hanno chiesto subito la revisione della sentenza, e successivamente è montato lo sdegno internazionale verso un provvedimento che ancora una volta colpisce chi evidenzia gli abusi e garantisce chi ne è artefice.

Hall è da tempo impegnato in battaglie legali che evidenziano problemi concreti per un gran numero di immigrati per lavoro. Problematiche sovente ignorate all’estero, il che lo porta a essere considerato un personaggio pericoloso per l’immagine del Paese.

La condanna è basata sulla querela contro Hall da parte del colosso thailandese National Fruit per avere descritto l’uso di lavoro forzato minorile, salari inferiori a quelli legali e orari fuori norma in una fabbrica del gruppo, il maggior produttore di frutta e del suo trattamento per l’esportazione. Alle informazioni da lui raccolte per conto di una ong finlandese, l’azienda aveva risposto con una denuncia chiedendo anche un risarcimento di 10 milioni di dollari. Ha ottenuto una condanna a tre anni, sospesa per cauzione e una multa di 4.300 dollari, ma la battaglia non è ancora finita.

Natural Fruit esporta gran parte del prodotto, soprattutto sotto forma di succhi di frutta, verso i mercati europei e per Hall la reazione sarebbe motivata dalla volontà di sviare l’attenzione rispetto al vero problema, ovvero lo sfruttamento della manodopera immigrata che sostiene industrie strategiche nel Paese, incluse quella ittica e delle costruzioni. Grandi gruppi europei in affari con quello thailandese hanno chiesto che le accuse vengano lasciate cadere, mentre i gruppi per i diritti dei lavoratori e dei migranti hanno condannato la posizione dell’azienda, non unica ad avere meritato in tempi recenti l’onore della cronaca per le condizioni di lavoro applicate ai dipendenti.

La battaglia in tribunale era iniziata nel settembre 2014, dopo aver rilasciato un’intervista ad Al Jazeera che aveva evidenziato quanto contenuto nel rapporto di Finnwatch. Da allora era stato privato del passaporto e gli era stato impedito di lasciare la Thailandia.

Il suo caso è emblematico, non solo perché espone la situazione di tanti immigrati da Cambogia, Myanmar, Laos e Vietnam che le leggi thailandesi pongono a completa disposizione dei datori di lavoro, ma anche per la reazione che denunce del genere suscitano nel Paese dove diversi temi non sono affrontati o sono censurati. In testa ai movimenti che hanno chiesto a Natural Fuit e alle autorità di riconsiderare il caso, è proprio Finnwatch, organizzazione per cui Hall aveva preparato il rapporto che ha dato avvio all’interesse internazionale per i temi affrontati. L’iniziativa finlandese, che si batte per una maggiore responsabilizzazione sociale delle aziende, ha chiesto a Natural Fruit di modificare il proprio atteggiamento “invece di minacciare e sfruttare i lavoratori”.

Il Paese del Sorriso è stato negli ultimi anni messo alle corde proprio per il mancato rispetto di trattati e convenzioni a cui formalmente aderisce, consentendo che migliaia di lavoratori vengano sfruttati in condizioni spesso di schiavitù.

Per due anni (2014 e 2015) il Dipartimento di Stato Usa ha posto la Thailandia in coda alla graduatoria del traffico di esseri umani, segnalando in particolare gli abusi nella pesca e nei servizi associati. Il Paese, si legge nel rapporto periodico, “attira decine di migliaia di lavoratori – spesso oggetto di tratta da Paesi vicini – che sono forzati, costretti o convinti con l’ingannati a lavorare o sfruttati sessualmente”. Quest’anno ala Thailandia è stato concesso il secondo livello, come stimolo dichiarato a proseguire nell’impegno a garantire diritti e giustizia ai lavoratori stranieri stranieri. C’e una forte attesa per quanto la giunta militare al potere, affiancata da un governo provvisorio in vista di elezioni più volte posticipate e previste ora per la fine del 2017, potrà fare per portare il Paese al rispetto di leggi, convenzioni e trattati firmati ma sovente elusi, mentre impedisce all’interno dissidenza e dialogo sulle necessarie riforme e il ripristino delle regole democratiche.