Gli Usa fuori dal Tpp: le reazioni dell’Asia

Gli Usa fuori dal Tpp: le reazioni dell’Asia

Sul piano degli scambi come pure degli investimenti, il ritiro Usa dallo scacchiere Asia-Pacifico sarà reale. Ma sarà molto più facile per la Cina – seconda potenza economica mondiale – occupare spazi lasciati liberi dal riflusso Usa che per gli Usa ripiegare sul piano strategico

 

Tra i primi atti di Donald Trump alla Casa Bianca il 20 gennaio è arrivato il ritiro formale degli Stati Uniti dal Partenariato trans-pacifico (Trans-Pacific Partnership, Tpp). Già tra gli 11 superstiti del Tpp – iniziativa in via di definizione da sette anni che avrebbe dovuto creare la maggiore area di libero scambio mondiale, sommando il 40 per cento della ricchezza del pianeta – si vanno delineando al momento tre diverse linee di reazione. Una (che include Australia e Nuova Zelanda) favorevole a proseguire senza gli Stati Uniti; una seconda che mira a coinvolgere la Cina in un’iniziativa che ad essa non porrebbe grandi ostacoli sul piano pratico; una terza, infine (che ha nel Giappone il principale promotore) che spera fino all’ultimo di convincere l’amministrazione statunitense del fatto che abbandonare il Partenariato non servirebbe alla causa statunitense, ma solo a lasciare ulteriore spazio a Pechino, che con una capriola ideologica si è già fatta campione della globalizzazione davanti alle prospettive isolazioniste dell’America di Trump.

Difficilmente il governo di Tokyo riuscirà nel suo tentativo: Washington ha infatti come priorità la rinegoziazione del Nafta (North America Free Trade Agreement) con Messico e Canada – che rappresenta il suo interesse primario quanto a investimenti, export, reperimento di materie prime e gestione dell’immigrazione – e una seconda linea di azione nella revisione e avvio di trattati bilaterali con un numero di Paesi, a partire dal Regno Unito.

Sicuramente, sul piano degli scambi come pure degli investimenti, il ritiro Usa dallo scacchiere Asia-Pacifico sarà reale. Sia per ribilanciare le proprie esigenze occupazionali e produttive, sia per ridurre una dipendenza dall’area e in particolare dalla Cina. Va sottolineato, d’altra parte, che da tempo è in corso un cambio di strategie da parte di tutte le maggiori potenze mondiali, nel tentativo di riportare in patria capitali e produzioni dopo anni di concessioni che hanno devastato economie e occupazione locali a favore delle iniziative delle proprie imprese in Paesi in via di sviluppo. In questa linea, peraltro incentivata dalle crescenti difficoltà che Pechino pone alle aziende straniere sul suo territorio, si colloca la politica di Donald Trump che più di altri finora su questo ha cercato consenso elettorale. Ignorando o fingendo di ignorare, però, le molte interconnessioni che avvolgono il pianeta, e a maggior ragione quelle che insieme a impegni e doveri coinvolgono la superpotenza americana. Sarà molto più facile per la Cina – seconda potenza economica mondiale – occupare spazi lasciati liberi dal riflusso Usa che per gli Usa ripiegare sul piano strategico. Così quella di oggi è una situazione che sembra ricordare quella che gli Stati Uniti hanno vissuto tra le due guerre mondiali, con un ritiro entro i propri confini o i propri interessi immediati che non può essere completo e sicuramente non duraturo.

I vincoli con i partner europei sul fronte economico e culturale, con la Nato su quello militare, con Giappone-Corea del Sud e i tanti alleati su quello strategico in Asia-Pacifico, non consentono una ritirata. La potenza cinese e soprattutto la sua aggressività nel rivendicare spazi, risorse, controllo su aree che sono vitali agli interessi Usa (Mar Cinese meridionale o orientale, Pacifico orientale, Oceano indiano) non lo consentiranno. Lasciare soli gli alleati davanti alle pretese cinesi avvierebbe un riarmo di enormi proporzioni nella regione, anche atomico, con conseguenze imprevedibili. Utile forse una rinegoziazione dei termini del sostegno militare di Washington a Tokyo, Seul e Taipei; necessario forse un ridispiegamento delle forze americane, ma non il loro ritiro.

Al momento a dominare la scena è l’ambiguità di Trump, che mentre comunica di non riconoscere come intoccabile la politica di un’unica Cina perseguita da Pechino nei confronti di Taiwan e minaccia i cinesi di bloccarne l’espansione nei “mari caldi”, paventa un disimpegno militare che significherebbe aprire le porte a ulteriori pretese cinesi (e alla minaccia nordcoreana, che è anche atomica ed è diretta a colpire pure il territorio Usa). In buona sostanza, le decisioni di Trump sono anti-storiche e creano enormi zone di incertezza in un’area del Pianeta che per molti analisti necessita proprio ora di più America e non meno. Anche per non lasciare spazio a forze reazionarie che – come nelle Filippine, in Thailandia o in Cambogia – si rafforzano proprio contando sull’appoggio cinese che non chiede contropartite in termini di diritti umani e democrazia reale.