Fede e finanza

Fede e finanza

Gli istituti missionari, che hanno dato impulso alla nascita della finanza etica in Italia, si stanno interrogando su come gestire in modo sempre più responsabile i propri investimenti. L’esperienza del Pime

 

Il salvataggio a ogni costo delle banche, facendo pagare il prezzo alla popolazione, senza la ferma decisione di rivedere e riformare l’intero sistema, riafferma un dominio assoluto della finanza che non ha futuro e che potrà solo generare nuove crisi dopo una lunga, costosa e apparente cura». L’enciclica “Laudato Si’” di Papa Francesco, pur essendo dedicata alla natura e alla cura del creato, tocca il tema della finanza per ben venti volte. Come a dire che le questioni ambientali e sociali sono collegate in modo stretto ai modelli che governano l’economia e la gestione dei capitali. Modelli che – l’enciclica lo sottolinea con forza – non sono dati una volta per tutte. Francesco invita a sviluppare una nuova economia più attenta ai principi etici. E lo fa non solo denunciando le grandi istituzioni finanziarie che resistono al cambiamento, ma anche sollecitando ognuno a fare la propria parte attraverso scelte responsabili. Utopico? Non si direbbe osservando la crescita sul mercato finanziario degli investimenti socialmente responsabili (Sri, socially responsible investments).

Negli ultimi dieci anni gli investimenti selettivi, quelli cioè che escludono in maniera sistematica aziende, settori o Paesi non ritenuti in linea con il rispetto dell’ambiente o dei diritti umani, sono aumentati da 500 a 4 mila miliardi in Nord America ed Europa, secondo un rapporto dell’agenzia Inrate. Oggi è possibile scegliere di non investire il proprio denaro in aziende che producono armi, alcol, tabacco, energia nucleare, oppure in titoli legati a governi dove vige la pena di morte. Un altro fenomeno significativo è l’esplosione dei green bond, le “obbligazioni verdi” che finanziano progetti a favore dell’ambiente. Il loro volume è aumentato di ben 5 volte solo negli ultimi tre anni superando gli 11 miliardi di dollari. Si tratta di fenomeni complessi e non privi di ambiguità, ma che sono anche la spia di un’attenzione crescente, anche da parte di grandi investitori.

A interrogarsi sull’eticità dei propri investimenti, non da oggi, sono gli enti non profit e gli istituti religiosi. In gioco, nel loro caso, c’è qualcosa di essenziale: la coerenza con la propria missione e la responsabilità nei confronti dei donatori. In particolare dopo la crisi economico-finanziaria del 2008 e gli scandali che hanno coinvolto il mondo bancario, sono sempre di più gli istituti che si dotano di regolamenti interni e strumenti avanzati per gestire in modo etico i propri investimenti. Di recente il Pime, dopo un percorso di diversi mesi che ha coinvolto laici competenti in ambito finanziario, ha prodotto un documento sulla gestione delle risorse economiche che, dopo l’approvazione della direzione generale, farà da riferimento a livello internazionale. Si tratta di una serie di linee guida che l’istituto ha scelto di darsi con il duplice obiettivo di renderne più trasparente l’amministrazione e di orientare in modo sempre più etico gli investimenti. «Come istituto abbiamo un dovere profetico verso i nostri donatori, parenti, amici per indicare loro possibili percorsi di nuovi stili di vita – si legge nella premessa – e un dovere morale di corretto utilizzo delle risorse affinché il più possibile siano messe a servizio dei poveri e dell’annuncio del Vangelo».

A spiegare i passi compiuti finora è padre Natale Brambilla, 52 anni, già missionario in Brasile e dal 2013 economo del Pime per l’Italia. «Due anni fa abbiamo cominciato a lavorare con l’economato generale del Pime di Roma chiedendoci come razionalizzare i nostri rapporti con le banche in modo da far prevalere criteri etici – afferma padre Natale -. Abbiamo quindi formato una commissione etica di cui fanno parte, oltre ai due economi, un amministratore laico del Pime e altri tre esperti in materie finanziarie che ci aiutano in modo volontario». Dopo un’attenta analisi della situazione, il primo passo è stato quello di verificare condizioni e costi applicati dalle banche con le quali l’istituto è in rapporto e cominciare a negoziarli.

«Abbiamo scelto di affidare il 98% della nostra operatività a una banca che si rivolge in modo specifico agli enti non profit e religiosi, chiudendo conti con altri istituti che non ci garantivano attenzione nei confronti di alcuni aspetti etici sui quali li avevamo sollecitati – continua padre Natale -. Per quanto invece riguarda gli investimenti, abbiamo innanzitutto cominciato a elaborare dei criteri decidendo dove non volevamo investire». Il Pime ha escluso le banche che hanno rapporti con industrie che producono armi, il cui elenco è disponibile sul sito internet di “Banche armate”, una campagna nata negli anni Novanta grazie anche al contributo del mondo missionario, comboniani e saveriani in testa. «In base alle informazioni raccolte abbiamo deciso di chiudere alcuni conti – afferma padre Natale -. Prima di farlo però abbiamo interpellato le banche in questione e spiegato le nostre motivazioni. Ci sembra importante non solo “andare via” ma anche dire il perché. L’obiettivo è anche creare una mentalità, incalzare il mondo delle banche e della finanza chiedendo atteggiamenti più responsabili». Per quanto riguarda gli investimenti, il Pime ha escluso quelli in società che producono alcol, tabacco, farmaci abortivi e contraccettivi e che operano nel gioco d’azzardo e nella pornografia. Si è scelto di dire no anche ai titoli emessi da governi che adottano la pena di morte, messi al bando dalla comunità internazionale o che negano la libertà religiosa.

«Dopo aver ragionato “in negativo” su ciò in cui non volevamo investire, abbiamo cominciato a elaborare dei criteri in positivo – afferma padre Natale -. Vorremmo trovare investimenti che favoriscano le comunità più povere, l’impresa sociale, la tutela dell’ambiente, i giovani, la ricerca, il microcredito e la piccola imprenditoria. Insieme a un gestore di fondi stiamo creando un fondo etico su misura, che seleziona gli investimenti in base ai nostri criteri. L’idea è quella poi di aprire questo fondo ad altri investitori che condividono i nostri principi. La Banca stessa, verificati stabilità e rendimento, lo potrà proporre ai propri clienti».

Ma come mai un istituto missionario ha l’esigenza di fare degli investimenti? «I fondi che riceviamo dai donatori per la missione sono tutti inviati nei Paesi in cui operiamo – spiega padre Natale -. Ma il Pime riceve anche lasciti ed eredità, che spesso comprendono tra l’altro anche titoli, oppure arrivano donazioni per sostenere l’istituto in Italia. In questo caso è nostro dovere far fruttare queste risorse, come dice la parabola dei talenti, ed è una responsabilità visto che non si tratta di soldi nostri ma di chi ce li ha donati e dei poveri ai quali sono destinati». Tenere insieme etica e rendimento non è impossibile. Anzi, i dati ormai in possesso dimostrano che proprio per la natura delle sue analisi la finanza etica permette di investire in modo meno rischioso. «Teniamo sempre presente l’aspetto del rendimento, non a tutti i costi però – afferma padre Natale -. Per esempio siamo consapevoli che investire in alcuni progetti sociali può portare a guadagni inferiori, ma che questa scelta può produrre altri benefici per la comunità». «Siamo solo all’inizio di un percorso – conclude padre Natale -. Capire davvero cosa è etico o meno non è facile. Siamo però convinti della strada che abbiamo intrapreso come istituto e crediamo che sostenere una finanza più etica non sia un “di più” ma un’esigenza di giustizia che tocca le corde essenziali della nostra missione». MM