Il pendolare della medicina

Il pendolare della medicina

Il medico Aldo Lo Curto trascorre sei mesi in Italia e sei in giro per il mondo. Dove cura le persone più bisognose. Un impegno che nasce dall’incontro con Madre Teresa e mons. Pirovano del Pime

 

La sua foto con Madre Teresa infilata nel passaporto è diventata una fedele compagna di viaggio per mezzo mondo. E non per modo di dire. In quasi quarant’anni di professione e di volontariato, il dottor Aldo Lo Curto è stato in almeno una cinquantina di Paesi, spesso i più poveri e svantaggiati del pianeta. Per portare un aiuto, un conforto, un consiglio. Per curare e sempre di più per aiutare a prevenire le malattie. Portandosi sempre lei, Madre Teresa, in foto, ma soprattutto nel cuore.

Il dottor Aldo Lo Curto è un “missionario della medicina”, anche se lui preferisce definirsi un “battitore libero”. Lo spirito, però, è lo stesso. Quello che ha attinto e consolidato grazie a incontri importanti, che hanno contribuito a modellare una visione molto personale di concepire e praticare la medicina. E così, dal lontano 1978 fa il pendolare per il mondo: sei mesi in Italia, sei mesi all’estero. L’incontro con Madre Teresa, in particolare – e i tre periodi di volontariato trascorsi in India – hanno segnato una svolta nella sua vita. «La incontrai a Roma nel 1987, durante una visita in Italia – racconta nella sua casa di Canzo, ricolma di immagini e cimeli provenienti dai cinque continenti -; le chiesi se potevo fare un’esperienza nella sue case a Calcutta. Lei accettò e partii per la prima volta nel periodo di Natale del 1987».

Quello che Lo Curto trovò non fu esattamente quello che si aspettava: «La Madre mi mandò nella casa dei moribondi. “Ecco – mi disse – prenditi cura di loro: lavali, accudiscili, tienigli la mano, sorridigli…”. Io ho provato a protestare con le altre suore: ero un medico, avrei voluto poter curare gli ammalati, non accompagnare i moribondi. Ma per due anni fu così; solo il terzo mi permise di operare nella casa dei lebbrosi. Ma quella è stata una delle lezioni più importanti della mia vita: mi ha insegnato il senso vero della cura e l’importanza di dare a tutti una morte degna. Questo ha cambiato il mio atteggiamento anche nei confronti dei pazienti qui in Italia, specialmente dei malati terminali».

La missione in andata, ma anche di ritorno. Il senso della dignità di ogni uomo e dei diritti di cui ciascuno deve poter godere, a qualsiasi latitudine, soprattutto nei posti più poveri e dimenticati del mondo. Perché? «Perché – confessa – non si è mai spento in me quel piccolo dottor Schweitzer che ogni medico si porta dentro il cuore appena uscito dall’università e che la routine professionale, le difficoltà economiche, le “radici” che ci ancorano nel posto in cui viviamo, fanno scomparire piano piano con il passare degli anni». Lui però ha tenuto duro. Facendo intimamente proprio quell’augurio che poneva come dedica su un libro del 1987: «A tutti coloro che lottano per dare un senso alla propria esistenza». Sono passati trent’anni, ma quella dedica era ed è ancora il filo conduttore della sua stessa vita. Così come il luogo che aveva dato il titolo a quel libro, “Marituba”, continua a essere un luogo-simbolo della sua scelta di essere medico “diviso in due”, tra l’Italia e il resto del mondo. Marituba non fu il primo, ma certamente è stato uno di quei posti che hanno segnato questo sessantasettenne originario di Agrigento, trapiantato nel Comasco e sempre pronto a partire.

Marituba significa molte cose: un lebbrosario, innanzitutto, che a quel tempo presentava situazioni pesanti non solo di persone orrendamente mutilate, ma anche di emarginazione e abbandono. Ma Marituba evoca subito anche grandi figure della missione come mons. Aristide Pirovano, del Pime, fondatore della diocesi di Macapá che – ricorda Lo Curto – «era uno di quei missionari che lavoravano 365 giorni all’anno. E quando arrivava qualcuno ad aiutarli come me, non si riposavano, ma ne approfittavano per inventarsi qualcosa si nuovo. Non erano capaci di fermarsi anche se attempati». Mons. Pirovano, dal canto suo, ricordava con affetto il suo «amico medico, che viene a passare le ferie annuali con noi, in Amazzonia, e a vivere le angustie, i dolori e anche la gioia e la serenità dei nostri lebbrosi e dei nostri poveri». Marituba, infine, è anche memoria viva di Marcello Candia, l’“apostolo dei lebbrosi”, di cui quest’anno ricorre il centenario della nascita. L’industriale milanese aveva venduto tutto per farsi povero tra i poveri proprio lì, in mezzo alla foresta amazzonica, dove nel 1980 anche Papa Giovanni Paolo II si era voluto recare in uno speciale pellegrinaggio.

Sulle orme di questi uomini e di queste esperienze, per 13 anni il dottor Lo Curto ha portato proprio a Marituba la sua esperienza medica e umana, per poi aprirsi ad altri orizzonti. Ma mantenendo sempre un legame forte e indissolubile con il Brasile. «Proprio su suggerimento di padre Pirovano – ricorda – sono riuscito a farmi riconoscere la laurea in medicina in Brasile e a iscrivermi all’Albo di Bélem. Questo mi ha permesso in tutti questi anni di poter praticare la mia professione in questo Paese, interessandomi anche a nuove realtà, come quelle degli indios, che ho cominciato a conoscere grazie a un altro missionario del Pime, padre Nello Ruffaldi».

Nel frattempo, però, il dottor Lo Curto non si era dimenticato di altre regioni del mondo, già frequentate o che desiderava scoprire. L’Africa, in particolare, dove tutto era cominciato con la primissima esperienza in Togo, nel 1978, nell’ospedale di Afagnan in cui operava, allora come oggi, uno straordinario medico-missionario, fra’ Fiorenzo Priuli dei Fatebenefratelli. E poi la Mongolia, dove, in un contesto completamente diverso, il dottor Lo Curto garantisce una missione all’anno esattamente da vent’anni. Senza dimenticare l’Oceania, all’altro capo del mondo, e in particolare le Isole Salomone, dove ha conosciuto il salesiano mons. Luciano Capelli. «Lo chiamavano il “vescovo volante” – ricorda Lo Curto -, perché soleva spostarsi da un’isola all’altra, pilotando il suo aereoplano ultraleggero». Quest’anno, invece, in occasione dell’Anno santo della Misericordia, mons. Capelli si è lanciato in un’iniziativa “galleggiante”. La sua Porta santa della Misericordia, infatti, è stata issata su una barca, in modo da poter raggiungere tutti i suoi cristiani, sparpagliati nei posti più sperduti dell’arcipelago.

«Da qualche tempo – precisa il medico – ho deciso di concentrarmi su sei Paesi: oltre a Brasile, India, Mongolia e Isole Salomone, visito ogni anno anche Madagascar e Benin. Questo perché mi sembra sempre più importante investire non solo sulla cura, ma soprattutto sulla prevenzione, cercando di formare al meglio coloro che nel resto dell’anno sono chiamati a lavorare sul posto, spesso in condizioni di isolamento e mancanza di mezzi».

Proprio per questo, ha realizzato alcuni manuali della salute con illustrazioni e brevi testi, molto intuitivi e rispettosi del contesto culturale in cui devono essere usati, ma anche delle buone pratiche che già vi sono presenti. In particolare, grazie al Premio Rolex Awards for Enterprise, che ha ricevuto nel 1993, Lo Curto ha potuto stampare in migliaia di copie il “Manual de Saùde”, concepito per gli indios dell’Amazzonia. Vi sono illustrati le malattie più comuni e i modi, sia tradizionali che della medicina occidentale, attraverso i quali poterle riconoscere, trattare e prevenire. Il libro è nato dalla collaborazione con José Maria Albuquerque e Ubiratan Porto che hanno realizzato le illustrazioni. Dopodiché sono stati pubblicati analoghi manuali per la salute in Africa (in diverse lingue) in collaborazione con il medico togolese, trapiantato pure lui nel Comasco, Komla-Ebri Kossi e dello stesso Ubiratan Porto.

«Sono convinto – ribadisce Lo Curto – che insistere sulla prevenzione sia il modo più efficace per operare in Paesi poveri e difficili, dove i sistemi sanitari sono estremamente fragili. Ma anche per non perdere mai di vista la persona dietro l’ammalato. Questa è la lezione più grande che mi sono portato in Italia, andando a “giocare fuori casa”». In che senso? «In altri Paesi – spiega – e soprattutto in molte culture tradizionali il senso della cura tiene insieme in modo indissolubile corpo, anima e spiritualità. Anche qui in Italia questo è importante. Spesso noi medici diventiamo troppo “tecnici”, ci occupiamo del paziente, perdendo di vista la persona. Ho vissuto questa esperienza in maniera molto forte negli anni in cui non c’erano ancora le cure palliative o cominciavano timidamente ad affacciarsi. Allora, andavo spesso a trovare gli ammalati terminali, li accarezzavo, li incoraggiavo, stavo con loro semplicemente tenendogli la mano. È la grande lezione che mi viene anche da Madre Teresa e dalle sue suore che spesso ho ritrovato nei posti di maggiore sofferenza in ogni angolo del mondo: non arrendersi mai, anche se non c’è più speranza, non negare a nessuno un gesto di vicinanza e di dolcezza. Donare dignità e amore, anche – e forse soprattutto – quando la vita sta per finire».