È la vita che vince

È la vita che vince

Nel mondo, la lotta alla mortalità infantile ha compiuto importanti passi avanti. Ma ancora non è sufficiente. Parla Flavia Bustreo, vicedirettore per la Salute della famiglia, delle donne e dei bambini dell’Organizzazione mondiale della sanità.

 

«A partire dal 1990 fino al 2015 il tasso di mortalità dei bambini sotto i cinque anni è dimezzato. Siamo passati da un po’ più di 12 milioni di bambini che non riuscivano a sopravvivere ogni anno a poco meno di 6 milioni. Va detto innanzitutto che questo è un progresso eccezionale. Io sono fra quelli che vedono il bicchiere mezzo pieno. Ovviamente, non è sufficiente». Originaria di Camposampiero in provincia di Padova, Flavia Bustreo, 55 anni, medico ed epidemiologa è vicedirettore per la Salute della famiglia, delle donne e dei bambini dell’Organizzazione mondiale della sanità. Lavora nel campo della salute pubblica da oltre vent’anni e ha fatto parte della task force per realizzare gli Obiettivi del Millennio, occupandosi in particolare della lotta alla mortalità infantile e della salute delle madri, due fra gli otto Obiettivi sui quali sono stati fatti i progressi più rilevanti. Se, infatti, dal 1990 il tasso di mortalità infantile ha cominciato a ridursi in molti Paesi, dal 2000 c’è stata addirittura un’accelerazione dei progressi di due volte e mezzo rispetto al decennio precedente.

Il 5 febbraio si celebra la giornata della vita. Il pensiero va subito ai bambini. A che punto siamo nella lotta alla mortalità infantile?

«I progressi sono stati eccezionali, anche se non sono stati sufficienti per raggiungere l’obiettivo di ridurre di due terzi la mortalità dei bambini sotto i cinque anni entro il 2015. Ci sono stati però singoli Paesi, anche nell’Africa subsahariana, che sono riusciti a raggiungere proprio l’obiettivo dei due terzi. Anche Paesi con reddito basso e un sistema sanitario relativamente fragile, come l’Etiopia, la Tanzania, il Malawi. Fuori dall’Africa penso al Bangladesh, il Nepal, il Brasile, il Messico».

Cosa ha funzionato e cosa no?

«Ha funzionato soprattutto la riduzione della mortalità dei bambini con età superiore al primo anno di vita. A questo risultato hanno contribuito i progressi fatti nel trattamento della diarrea e nella prevenzione della malaria, fra le cause principali di mortalità infantile. Ad aver funzionato meno bene è stata invece la riduzione della mortalità neonatale, dei bambini sotto il mese di vita. Quello che abbiamo visto è che in tantissimi Paesi la proporzione di morti neonatali ha continuato a crescere, anche dove diminuiva quella dei bimbi sopra l’anno. Nelle strategie, quindi, diventa molto importante concentrarsi sul momento del parto, i primi istanti di vita del bambino e il suo primo mese».

Perché la lotta alla mortalità dei neonati è più difficile?

«I servizi sanitari che hanno ridotto la mortalità dei bambini sotto i cinque anni, come la fornitura di reidratanti per combattere la diarrea o di antibiotici per la polmonite, sono trattamenti che possono essere forniti anche da operatori sanitari sul territorio e da personale paramedico. Invece gli interventi che abbiamo a disposizione per salvare i bambini nei primi giorni di vita sono strettamente collegati alla qualità dei servizi sanitari. Per esempio, circa un milione di bambini all’anno muore per asfissia neonatale, che si verifica quando c’è un’ostruzione durante il parto. Per risolvere il problema è sufficiente aspirare il liquido amniotico che il bambino ha respirato e tutto torna normale. Però serve avere un operatore sanitario al momento della nascita che sia in grado di riconoscere che il bambino è solo asfittico e non ha altre patologie, e che sappia aspirare rapidamente. Questo significa che durante il parto la mamma deve essere assistita da personale competente e che la strumentazione deve essere adeguata. Lo stesso vale per la sepsi neonatale, un’infezione che si contrae quando il parto non è eseguito in modo igienico e il cordone ombelicale non è tagliato con strumenti sterilizzati».

In Africa solo quattro Paesi hanno raggiunto l’obiettivo di destinare il 15 per cento del budget nazionale alla sanità. Cosa dovrebbero fare i governi?

«La qualità si raggiunge quando si ha personale sanitario qualificato, e quando è disponibile non solo nelle capitali ma anche nelle aree rurali. In secondo luogo devono esserci servizi e attrezzature all’altezza, per esempio la possibilità di fare trasfusioni di sangue nel caso di emorragia durante il parto. E questo ovviamente richiede dei soldi, investimenti in salute. Che sono importanti non solo perché salvano delle vite e realizzano il diritto alla salute per tutti, ma anche in termini economici. Due anni fa abbiamo fatto degli studi dove abbiamo visto che per ogni dollaro investito nella salute materno-infantile c’è un ritorno di otto volte nella produttività dei Paesi che fanno questi investimenti. Abbiamo fatto sempre molta pressione sui governi perché sia chiaro che quelle per la sanità non sono spese “a perdere” ma investimenti produttivi».

In Africa si riscontrano grandi differenze fra capitali e zone rurali, e fra chi può permettersi di pagare per i servizi e chi no…

«L’equità nell’accesso alle cure sanitarie è diventata una sfida globale. È un tema al quale tengo moltissimo e che ho messo fra le priorità del mio programma nella candidatura per la direzione dell’Oms. E le posso dire che non vale solo per l’Africa ma anche per la nostra Italia e gli Stati Uniti. Si arriva all’equità solo se si parte dal presupposto che la salute è un diritto di tutti gli individui e che la copertura dei servizi sanitari deve essere universale. Noi italiani abbiamo questo principio nel Dna: c’è nella nostra Costituzione e siamo riusciti a tradurlo in realtà attraverso la nostra riforma del sistema sanitario del ’78, anche se dobbiamo tutelarne e continuare a garantirne l’applicazione. Purtroppo in molti Paesi questo concetto non è accettato e in questi casi la salute è un privilegio accessibile a chi può permetterselo».