Telai solidali

Telai solidali

Abiti liturgici confezionati da artigiani in Argentina e Albania, la cui vendita finanzia progetti di Chiese nel Sud del mondo. È il circolo virtuoso del “Telaio della missione” di Bergamo

 

Nelle trame del tessuto c’è il lavoro di abili mani. Nei disegni simboli antichi, rielaborati in moderne geometrie. L’abito, nelle celebrazioni religiose, ha significato se indica una relazione: fra gli uomini e Dio, fra gli uomini tra di loro. A Bergamo, la onlus “Il telaio della missione” confeziona abiti liturgici proprio con questo obiettivo: esprimere relazioni all’interno della Chiesa, mettendo in comunicazione comunità cristiane da un capo all’altro del mondo. Casule e stole vengono confezionate da due laboratori artigiani, in Argentina e Albania, che usano materiali naturali come cotone e lino abbinati a elementi decorativi tessuti a telaio. Con il ricavato della vendita degli abiti, il centro missionario di Bergamo cofinanzia due progetti di comunità cattoliche nel Sud del mondo: la costruzione di una chiesa in Costa d’Avorio e il sostegno di dieci aspiranti sacerdoti nel seminario di Potosí in Bolivia.

«A ispirarci è la visione di “Chiesa in uscita” proposta da Papa Francesco – spiega Stefano Pagliaro, ideatore del progetto e unico dipendente della onlus, che può contare anche sull’operato di una trentina di volontari -. I modelli di abiti liturgici che proponiamo sono semplici, confezionati usando materiali, colori e tessuti provenienti dal Sud del mondo. Crediamo che debbano comunicare un messaggio in questo nostro tempo. Nelle nostre chiese sono spesso in uso casule e stole magari preziosissime, ma che starebbero meglio dentro un museo».

La onlus “Il telaio della missione” è nata due anni fa nel centro missionario diocesano di Bergamo, condividendone due obiettivi principali: far conoscere l’opera di più di 700 missionari bergamaschi – sacerdoti, suore e laici sparsi in tutti i continenti – e valorizzare le culture e l’artigianato dei Paesi in cui sono presenti. Ma la creazione di questa associazione è solo l’ultimo capitolo di un’idea concepita anni fa, che via via ha conosciuto una sempre più concreta realizzazione.

«Negli ultimi due decenni mi è capitato di viaggiare parecchio, con l’obiettivo di visitare progetti e trovare finanziamenti per conto del centro missionario diocesano di Bergamo – racconta Pagliaro -. Durante queste esplorazioni sono stato attratto da due realtà diverse, la prima in Argentina e la seconda in Albania. In Argentina, nell’estremo Nord, ho conosciuto alcuni artigiani impegnati nell’arte della tessitura e un’associazione nata per far conoscere l’attività di una popolazione indigena che ha una lunga tradizione in questo ambito, i wichí. Questa comunità vive piuttosto isolata e conserva un approccio molto rispettoso nei confronti della natura, dalla quale preleva ciò che è necessario senza impoverirla. Le donne, in particolare, realizzano tessuti meravigliosi con una pianta locale che cresce spontanea nelle campagne, il chaguar. Si tratta di un’arte antichissima, che risale al periodo precolombiano. Le donne vanno a cercare queste piante e le portano nei villaggi, dove le foglie vengono battute per poi ricavarne un filo. Dopodiché si va alla ricerca di radici e cortecce dalle quali sono ricavati i pigmenti nei quali il filo viene intinto. Quindi si procede con il lavoro di tessitura vero e proprio. I disegni riproducono simboli antichissimi, eppure straordinariamente moderni nelle geometrie. Mi è venuto spontaneo pensare che fossero adatti per un abito liturgico».

Tornato a Buenos Aires, Pagliaro ha conosciuto un’esperta dell’arte tessile dei mapuche, popolazione che vive in Cile ma anche nel Sud dell’Argentina. «Mi sono chiesto: perché non provare a creare un laboratorio in cui far confluire le diverse abilità, storie e racconti di queste persone?» continua Pagliaro. È nato così, nella capitale dell’Argentina, un atelier dove vengono confezionati abiti liturgici utilizzando i tessuti in materiali naturali realizzati dai wichí e dai mapuche con inserti e motivi geometrici in chaguar e in cuoio.

L’altro inizio del progetto casule solidali è in Albania, nella diocesi di Lezhe, che sorge in una regione tradizionalmente cattolica a nord della capitale Tirana.

«Qui ho incontrato un gruppo di donne che, all’indomani della caduta del regime di Enver Hoxha, hanno deciso di riunirsi in una cooperativa con l’aiuto della Caritas e di dar vita a un laboratorio di tessitura, riesumando gli antichi telai contadini che ancora possedevano e che erano stati messi al bando durante la dittatura, in nome di un modernismo che l’Albania avrebbe dovuto perseguire. Il controllo dei padri, dei mariti e poi anche dei figli maschi sulle donne è molto forte, anche se molto lavoro, soprattutto nelle zone rurali, viene svolto concretamente da loro. La tradizione della tessitura è ancora viva. E queste donne hanno rimesso insieme trama e ordito riscoprendo antichi disegni e accostamenti di colori, con grandissima creatività ma anche con spirito di adattamento e capacità imprenditoriale. Con loro abbiamo iniziato a creare dei tessuti-base, in cotone grezzo non trattato o in misto lino. Partiamo dalle linee che loro ci propongono per poi farle esplodere trasferendo nei tessuti qualcosa di diverso, che venga incontro anche al gusto occidentale. Le loro lavorazioni si ispirano agli abiti tipici contadini di fine Ottocento, con motivi che risalgono alla tradizione ottomana, e persino bizantina. Alcuni simboli, come l’albero della vita o i fiori a forma di croce, sono gli stessi che i cristiani portavano sugli abiti secoli fa per riconoscersi fra di loro. All’interno dei manufatti tessili albanesi non possono mancare i motivi di metallo, argento oppure oro tipici della cultura ottomana. Insieme rielaboriamo tutto questo, cercando una mediazione fra la tradizione e l’attualità, arrivando a linee contemporanee».

E’ però, vietato parlare di casule e stole “etniche”: «Non si tratta di prelevare un manufatto da una contesto culturale per poi venderlo in un altro – spiega Pagliaro -; ci deve essere un momento di mediazione, di rielaborazione e di dialogo, da cui nasce qualcosa di “altro”. La cooperazione è la chiave di questo progetto. Il laboratorio in Albania dà lavoro a dodici famiglie, quello in Argentina a una trentina di donne della comunità indigena più altri otto artigiani. Con il ricavato supportiamo Chiese povere nel Sud del mondo, aiutando le comunità locali a portare avanti iniziative legate alla trasmissione della fede e all’annuncio». Il progetto non riesce ancora ad autosostenersi con la vendita di stole e casule ed è supportato dal centro missionario diocesano di Bergamo, ma l’idea è quella di creare un circolo virtuoso in cui «la Chiesa aiuta la Chiesa».