La rivolta dei pacifici

La rivolta dei pacifici

Gerusalemme è tornata a fare i conti con l’intifada. Ma c’è chi continua a seminare riconciliazione tra arabi e israeliani

È il conflitto che non finisce mai. Quello che non ci scuote neppure più. Da più di due mesi ormai la Terra Santa fa i conti con una nuova ondata di violenza molto cruenta, ribattezzata l’intifada dei coltelli. Complice la «guerra mondiale a pezzi» facciamo – però – una gran fatica a trovarla sui giornali. Siamo stanchi di sentire una storia che tra arabi e israeliani sembra ripetersi sempre uguale. Consideriamo l’odio come l’unica possibilità di relazione tra questi due popoli.

Eppure guardare davvero dentro a Gerusalemme è accorgersi che c’è sempre anche un altro volto di questa terra: quello di chi è capace di annunciare la pace e la possibilità di un incontro persino nel cuore di un conflitto lungo e doloroso per tutti. Persino in queste settimane.

E’ la storia concreta – ad esempio – di due donne, Ruth Ebenstein e Ibtisam Erekat: israeliana di origini americane la prima, palestinese della Cisgiordania la seconda; entrambe mamme con figli piccoli o adolescenti. Si sono incontrate cinque anni fa, a partire da un’esperienza che apparentemente nulla avrebbe a che fare con il conflitto: tutte e due si sono trovate a lottare con un tumore al seno. Solo che – tra una terapia e l’altra – hanno cominciato a vivere l’esperienza più difficile oggi in Israele e Palestina: incontrarsi faccia a faccia, scoprendosi inaspettatamente vicine anche in mille altre cose che nulla hanno a che fare con la malattia. Compreso un discreto senso dell’umorismo. Ne è nato un blog curato da Ruth – laughthroughbreastcancer.com – dove lo slogan è, appunto, ridere (ma anche piangere) su un tumore al seno. Della loro amicizia hanno parlato in questi anni alcuni grandi media internazionali. Ma ora Ruth e Ibtisam si trovano a fare i conti con la nuova intifada; con il suo volto terribile di ragazzini e ragazzine poco più grandi dei loro figli che si avventano con un coltello contro il primo “nemico” che passa. Così hanno pensato a un gesto: sono andate insieme in una scuola israeliana a parlare a un gruppo di adolescenti. Hanno affrontato le raffiche delle loro domande: «Come fa la vostra amicizia ad andare avanti con tutto quello che succede?», «Che cosa pensano i vostri figli?», «Che cosa si può fare per uscire da questa situazione?». «Conoscere chi sta dall’altra parte – è stata la risposta delle due donne -. Se hai degli amici palestinesi loro per te non sono più trasparenti. E se dei palestinesi hanno amici come voi, per loro non siete più trasparenti».

Incontrarsi tra persone. Nel momento in cui l’intifada a Gerusalemme diventa un corpo a corpo, solo questa è la risposta possibile. Lo sa bene anche il rabbino Arik Ascherman, dell’associazione Rabbis for Human Rights, da anni protagonista di gesti di solidarietà con le vittime delle ingiustizie in Israele come in Palestina. Una delle azioni che ogni anno promuove è la raccolta delle olive in quei campi che l’esercito israeliano rende inaccessibili ai proprietari palestinesi perché troppo vicini al muro di un insediamento. A mietere al loro posto ci va lui, con la sua kippah in testa, insieme ad altri volontari israeliani o internazionali.

Lo ha fatto anche in queste settimane di nuovo caldissime in Terra Santa. E anche lui – a quel punto – si è trovato davanti un ragazzo con un coltello. Non però palestinese – come a prima vista tutti saremmo portati a pensare – ma israeliano: un giovane colono, evidentemente infastidito da quell’opera di un ebreo in favore di una famiglia palestinese. Rav Arik ha cercato di divincolarsi: sono stati lì uno davanti all’altro per qualche minuto. Poi il ragazzo se n’è andato e il rabbino – scosso – ha continuato il suo lavoro tra gli ulivi. «Avrebbe potuto uccidermi – ha commentato Ascherman -. Se non lo ha fatto è perché nel momento della verità non se l’è sentita di diventare un omicida. Oso pensare che abbia ascoltato una voce dal Cielo che gli diceva “Non stendere la tua mano…” (Gn 22,12). Possa essere stato l’inizio di una teshuvah (il termine ebraico che indica la conversione del cuore – ndr)». Nell’episodio vissuto da rav Ascherman ha giocato il ritrovarsi di un ebreo di fronte a un altro ebreo. Ma quando ci si trova faccia a faccia si può davvero distinguere fino in fondo se il sangue sia arabo o israeliano? Un’altra delle tristi lezioni di quest’intifada è che non è così. Sono diversi gli episodi in cui un palestinese ha colpito un altro palestinese pensando fosse israeliano. E viceversa. È successo ad esempio a Mahane Yehuda, il grande mercato ebraico di Gerusalemme: una mattina di novembre due adolescenti palestinesi si sono scagliate contro un anziano, ferendolo con delle forbici. Una delle due aveva avuto un fratello ucciso in uno scontro con l’esercito israeliano, era la sua personale (e suicida) vendetta. Non sapeva che l’uomo che stava ferendo era in realtà un arabo di Betlemme, uno dei pochi che hanno ancora il permesso di recarsi a Gerusalemme.

Se non indossano kippah, veli o keffiah fanno fatica a distinguersi addirittura tra loro molti israeliani e palestinesi. E allora il coraggio sta oggi nel ripartire da qui, anziché dalle mille analisi sui torti e le ragioni di questo conflitto. Con gesti coraggiosi anche fuori da Israele e dalla Palestina. Di uno si è reso protagonista Abdul Rahman Ahmad, l’imam di un centro islamico del New England, negli Stati Uniti.

Lo ha fatto il giorno in cui ha appreso di un diciottenne della sua contea, Ezra Schwartz, ucciso in Cisgiordania in un attentato tra i tanti di questa nuova intifada. Quel giorno l’imam ha deciso di inviare un messaggio alla famiglia della vittima: «Il Signore è vicino a chi ha il cuore ferito», ha scritto citando il salmo 34. «La nostra comunità ha sempre condannato questi atti violenti a partire dalla nostra convinzione che l’islam ci chiami a essere persone che portano la pace e l’armonia nel mondo – ha aggiunto -. Siete nel mio cuore, in quello della mia famiglia e nelle nostre preghiere». Il volto del fratello prima di qualsiasi altra considerazione: c’è chi continua a dirlo e a viverlo oggi intorno a Gerusalemme. Ed è l’unica strada capace di tenere accesa la speranza della pace nella Città Santa, quanto mai icona del mondo ferito di oggi. MM