Ero straniero a Sotto il Monte

Ero straniero a Sotto il Monte

Dal mese di agosto la casa del Pime che custodisce la memoria di papa Giovanni XXIII ha aperto mle sue porte per accogliere, insieme alla Caritas, 63 richiedenti asilo provenienti da dieci diversi Paesi

 

È stato il Papa della Pacem in Terris. Ora nei suoi luoghi più cari accoglie le vittime delle guerre e della povertà nel mondo. C’è anche la casa natale di papa Giovanni a Sotto il Monte – donata da Roncalli stesso ai missionari del Pime – tra le tante strutture che la Chiesa italiana ha aperto in questi mesi all’accoglienza degli immigrati, sulla scorta anche dei ripetuti inviti di papa Francesco.

Ad essere accolti in un’ala rimasta vuota dell’ex seminario sono 63 richiedenti asilo di dieci nazionalità tra Africa ed Asia. Sono tutti uomini, molto giovani (quasi tutti sotto i trent’anni), arrivati in Italia da poche settimane. Tra i Paesi di provenienza i più presenti sono Ghana, Nigeria, Bangladesh, Afghanistan e Pakistan. Ed è un gruppo che si inserisce nell’impegno più ampio messo in atto dalla diocesi di Bergamo per l’accoglienza ai profughi: a fine settembre erano ben 1215 le persone accolte tra la Caritas e alcuni altri enti.

A Sotto il Monte sono arrivati il 10 agosto su richiesta del prefetto di Bergamo: nei giorni più caldi dell’emergenza sbarchi erano stati sistemati in una palestra a Premezzo, serviva un luogo più consono. Con la Caritas di Bregamo è quindi partito un lavoro di accompagnamento, per far sì che l’accoglienza al Pime non fosse solo un tetto e un piatto, ma un percorso rispettoso della dignità di queste persone. «È una presenza discreta – spiega il rettore della casa del Pime di Sotto il Monte, padre Castrese Aleandro – anche un po’ appartata rispetto ai luoghi dove passano i pellegrini. Non vogliamo che siano qui in esposizione. Da un punto di vista logistico non c’è nessuna difficoltà. Anzi: una cosa simpatica e che due giovani bengalesi hanno visto l’orto e spontaneamente ora vengono a dare una mano per curarlo».

Sono sei gli operatori Caritas che si alternano nella struttura, garantendo una presenza accanto ai richiedenti asilo 24 ore su 24. A queste figure qualificate si affiancano poi un gruppo di volontari, grazie ai quali – ad esempio – è stato possibile far partire da subito una scuola di italiano. Attenzione importante, dal momento che la permanenza dei richiedenti asilo non sarà breve: i tempi dell’esame della domanda (e degli eventuali ricorsi in caso di diniego) arrivano attualmente ai due anni. Dunque è essenziale che queste persone imparino la lingua per poter inserirsi nel contesto in cui vivono. Insieme all’autonomia: a parte la cucina – non ancora attrezzata – tutta la gestione della casa è affidata agli immigrati stessi, organizzati in squadre.

Ma da dove vengono e quali percorsi hanno alle spalle le persone accolte al Pime? Basta ascoltare alcune storie per rendersene conto. Ad esempio quella di Lawson, 22 anni, fuggito dalla Nigeria perché lui cristiano era minacciato in seguito alla morte di una ragazza musulmana. Giunto in Libia ha dovuto lavorare per mesi in una fattoria in condizioni di semi-schiavitù per ripagare i trafficanti di uomini. Finché una notte si è ritrovato bendato su un barcone diretto a Lampedusa. In mare dalla Libia è arrivato anche Stephan, 25 anni ghanese: a Derna c’era arrivato bambino insieme al padre, che lavorava come idraulico. Poi nel 2012, in una delle ormai troppe ondate di violenza, il papà è stato ucciso e lui è rimasto là a lavorare, tra mille minacce. Finché in luglio non è riuscito a partire: due notti in mare, ricordi che ancora pesano.

Poi c’è Mohamad che viene dall’Afghanistan: nonostante abbia solo 26 anni, dal suo Paese è già scappato due volte. La prima fu nel 2007 è attraverso Pakistan, Iran, Turchia, le isole greche, Italia, Francia, Germania, Danimarca e Svezia dopo quasi due anni era arrivato in Norvegia, quella che aveva scelto come destinazione finale. Ma lì – nel 2012 – la sua domanda d’asilo è stata respinta e si è visto rimandare indietro in Afghanistan. Dove ha trovato ancora la guerra e le minacce personali dei talebani. Così quest’estate è partito di nuovo attraverso la rotta balcanica fino ad approdare a Udine, da dove è stato inviato a Sotto il Monte.

La domanda è: quanti di loro otterranno il riconoscimento dello status di rifugiati? «Attualmente la media è di circa il 30%», risponde Bruno Goisis, che per la Caritas di Bergamo si occupa del coordinamento dell’accoglienza. «E gli altri? È il problema di un Paese come il nostro, che non ha un progetto politico sull’immigrazione. Di fatto l’esperienza dice che escono dall’accoglienza per entrare tra i poveri della città».

Anche per questo promuovere percorsi di integrazione è fondamentale. Ed è una sfida che passa anche attraverso gesti semplici: «Qui a Sotto il Monte c’è stato già in queste prime settimane un torneo di calcetto e uno di pallavolo – racconta Fiorella Rota, una delle operatrici Caritas -. E poi la giornata di “puliamo il mondo” con alcuni di loro che hanno partecipato. Il Comune aveva offerto la possibilità solo a venti ed è stato difficile sceglierli: avrebbero voluto partecipare tutti». Uno dei problemi che si fa sentire – infatti – è proprio la forzata inattività: la legge stabilisce che nei primi sei mesi dalla richiesta d’asilo queste persone non possano lavorare nel nostro Paese.

Qualcosa però presto potrebbe cambiare: la Caritas ha stipulato un accordo con l’Azienda Bergamasca di Formazione – il consorzio di formazione professionale della provincia – per coinvolgere 200 ragazzi in corsi ad hoc. «Non vogliamo illuderli promettendo un lavoro che oggi non c’è – spiega Goisis – ma almeno usare questo tempo per offrire strumenti e competenze che potranno tornare loro utili in futuro».