Amare è una missione infinita

Amare è una missione infinita

Padre Pietro Belcredi è missionario del Pime da 55 anni. Di recente ha scoperto un nuovo modo di vivere la missione: fare il “nonno” in una comunità per giovani con problemi di droga a Manaus

 

«A ottant’anni ho trovato la mia vocazione: sento di essere nel posto giusto. Segno che non è mai troppo tardi!». Allarga le braccia padre Pietro Belcredi, e regala un grande sorriso. Missionario del Pime da sempre – a essere precisi dal 18 marzo del 1961 – da qualche mese vive nella Fazenda da Esperança, una comunità terapeutica che a Manaus, grande città nell’Amazzonia brasiliana, ospita giovani con problemi di tossicodipendenza. Quella delle “fattorie della speranza” è un’esperienza nata in Brasile: il sacerdote tedesco Hans Stapel e un laico brasiliano, Nelson Giovanelli Dos Santos, aprirono la prima fazenda a Guaratinguetá, nello Stato di San Paolo, nel 1983. Oggi sono 165 in tutto il mondo. Strappano i giovani alla droga puntando su tre leve: spiritualità, lavoro e vita comunitaria.

Padre Pietro, a ottant’ anni cosa ha scoperto di nuovo?

«Che tutte le persone hanno dentro il “senso di Dio”, anche se tante volte cercano di sopprimerlo, di farlo tacere. Per quanto riguarda me, ho finalmente trovato una famiglia. La fattoria della speranza di Manaus ospita 120 giovani con problemi di droga, facendo fare loro un percorso che dura un anno. È composta da otto casette con 15 giovani per ognuna, dove vive anche una coppia di volontari che fanno da “mamma e papà”. Il tentativo è quello di ricreare una famiglia dove ognuno possa confidarsi e sperimentare relazioni significative. Qui ho scoperto la mia nuova vocazione. Durante la giornata ognuno è impegnato nel proprio lavoro e io passo da una casa all’altra chiacchierando del più e del meno, proprio come fanno i pensionati di una certa età! Partecipo alla loro vita e molti mi trattano come un nonno, al quale confidare problemi e speranze. Grazie a questi giovani, che hanno alle spalle esperienze davvero traumatiche, ho sperimentato di nuovo la bellezza della parola di Dio “viva”, che arriva a cambiare la vita delle persone. Pensavo ormai di aver concluso la parte “attiva” della mia vita, ma ho scoperto un nuovo modo di essere missionario e mi sento addirittura ringiovanito. Per questo vorrei dire ai nonni e a tutte le persone anziane che è possibile vivere appieno, nei limiti che la salute permette, la propria età. Non è mai tardi per amare».

Come ha conosciuto la realtà della Fazenda da Esperança?

«A 75 anni avevo dato le dimissioni dalla parrocchia di Barrerinha, alla foce di tre fiumi, con una cinquantina di comunità da seguire, e mi ero trasferito nella più tranquilla parrocchia di San Giuseppe Operaio. In quel periodo il Papa continuava a insistere sulle periferie, allora mi sono dato da fare e ho cercato di avvicinare i più poveri: quelli che vivevano sulle palafitte, o che provenivano dall’interno della foresta e nella grande città non sapevano come cavarsela. Ho fatto scoperte terribili: droga, violenza, furti. Ai ragazzi di catechismo una volta ho chiesto chi di loro fosse stato assalito: su trenta era capitato a dieci, a uno era stato rubato il cellulare, a un altro era stato puntato il coltello alla gola… Parlandone con gli adulti che frequentavano la parrocchia mi sono accorto però che nessuno di loro aveva intenzione di andare nei quartieri più poveri per avvicinare gli ultimi. Questa scoperta mi ha interrogato profondamente. A 77 anni sono andato a Manaus con l’idea di tornare in Italia, ma qui ho incontrato padre Mario Pasqualotto del Pime, che mi ha proposto di collaborare alla Fazenda da Esperança. Ho accettato . Ora da martedì a domenica sera vivo nella fattoria, torno a Manaus il lunedì per incontrarmi con i confratelli del Pime».

Com’è la vita in fattoria?

«L’ambiente è molto bello e curato: alla bellezza viene dato un grande valore. Gli altri aspetti fondamentali sono la preghiera, il lavoro e la fiducia che viene data a questi ragazzi. A ognuno è affidato un compito e ogni casa ha la sua attività quotidiana da portare avanti. Una casa ha un pollaio di seimila galline: significa oltre quattromila uova da lavare, mettere in cassetta e vendere ogni giorno. Un’altra casa ha un allevamento di maiali, un’altra la pescicoltura, un’altra ancora un panificio. Ci si alza alle cinque del mattino, alle sei c’è la Messa e ci si saluta con un “Buongiorno famiglia!”, poi tutti sono impegnati nelle diverse attività. Nella fazenda ci sono anche una palestra, un campo da calcio e una casa della formazione, dove si va a studiare».

Di cosa parla con questi giovani?

«Dico loro che Dio usa anche i peccati per fare del bene, di lasciare il passato nelle sue mani e di approfittare delle loro esperienze, anche negative, per aiutare gli altri. Il percorso in fattoria dura un anno, poi i ragazzi escono e restano collegati fra loro attraverso il “Gruppo speranza viva”».

Padre Pietro, che programmi ha per il futuro?

«Vorrei andare in Guinea Bissau, dove sono stato missionario per sedici anni tanto tempo fa, per vedere se è possibile aprire anche lì una Fazenda da Esperança. Ma non sono incosciente, tengo presente la mia età… capirò da quello che succede se è un sogno possibile».

Da giovane in Guinea Bissau e poi in Brasile… Com’è andata?

«A vent’anni ero in seminario nella diocesi di Tortona e a un certo punto andai in crisi. Capivo che fare il prete “normale” non era per me. Ma nemmeno sentivo il desiderio di sposarmi e costruire una famiglia. Dentro di me cominciò a farsi strada l’attrazione per la missione. Per me il missionario era chi andava oltre il limite, sia in senso geografico che umano, per stare con i poveri».

Papa Francesco le chiamerebbe periferie…

«Sì, sono andato a cercarle, le periferie, anche se non è stato facile. Sono entrato nel Pime nel ’61 e la mia prima destinazione è stato il Brasile, ad Assis, nello Stato di San Paolo. Qui mi ritrovai a insegnare in un collegio nato per i poveri ma che, negli anni, si era trasformato in una scuola per i figli dei fazenderos, con due piscine e quattro campi da calcio. Dopo sette anni tornai in Italia. Era il ’68 e chiesi al superiore padre Aristide Pirovano di mandarmi in Guinea Bissau, dove la gente viveva la povertà e la guerra. Prima però dovetti andare a Lisbona, perché la Guinea era ancora una colonia e il visto lo rilasciava il governo portoghese. Anche qui mi ritrovai in una casa antica con arazzi e stucchi alle pareti, trasformata in ostello dai francescani. Chiesi di poter andare ad abitare nel quartiere povero della città, dove vivevano 10 mila persone. La parrocchia era una casa di cartone in fila alle altre, senza luce né acqua. La prima sera la ricorderò sempre: mi ero messo accanto alla finestra per guardare la luna e pregare un po’. Non avevo mangiato. Arrivano tre donne, con una lucerna, un pane e una brocca d’acqua. Mi dissero: “Sappiamo cosa vogliono dire i primi giorni in un posto come questo” e senza aggiunger altro lasciarono tutto lì. Nei giorni seguenti scoprii che erano zingare. Feci pian piano amicizia con gli abitanti del quartiere. Era una vita povera e bella. Dopo nove mesi mi diedero il visto per la Guinea Bissau».

E lì c’era la guerra…

«Sì, una guerra dura, quella di liberazione, dove non ci si poteva fidare gli uni degli altri. A Catió, facevamo un po’ di assistenza sanitaria tra i balanta, la popolazione locale. Finita la guerra capimmo che se continuavamo a stare in una casa da europei ci avrebbero sempre visti come “gli zii d’America”. Con padre Maurizio Fioravanti decidemmo di andare a vivere nel villaggio di Sua, in una capanna come tante, fatta di fango e paglia. Chiudemmo la casa e la regalammo al responsabile della scuola vicina. Portammo via solo il letto e una pentola. Volevamo annunciare il Vangelo senza portare nulla, come raccomanda Gesù. Mi dicevo: “Vedendo come viviamo si chiederanno cosa ci spinge”. Nei giorni seguenti ero a casa e sentii dalla finestra uno stralcio di conversazione fra due uomini del villaggio. Uno diceva all’altro: “Ma che delitto avranno fatto questi due bianchi per essere stati puniti in questo modo?”». (Ride)

Una curiosità: qualcuno è diventato cristiano?

«Passarono diversi anni. Un giorno un anziano importante del villaggio chiese di parlarmi. Mi disse: “Padre, non cercare di convertire noi vecchi perché non ci riuscirai mai”. E poi aggiunse: “Però continua così perché i nostri giovani ti seguiranno”. Dopo pochi mesi arrivarono sette giovani che volevano conoscere Gesù. Io non sapevo che fare: cominciai a leggere con loro il Vangelo di Marco traducendo dal portoghese al criolo, con uno di loro che traduceva in balanta. Fu un’esperienza entusiasmante e questi ragazzi furono un esempio per me: lavoravano tutto il giorno immersi nell’acqua delle risaie, arrivavano a sera stanchi eppure non perdevano nemmeno uno dei nostri appuntamenti. Grazie a loro sperimentai per la prima volta la forza della parola del Vangelo».