Il prete figlio delle steppe

Il prete figlio delle steppe

Dopo oltre vent’anni di presenza cattolica nel Paese, la Mongolia festeggia domenica l’ordinazione sacerdotale del giovane Joseph Enkh, la prima per questa piccola Chiesa. Un evento storico, come racconta un missionario da anni a Ulaan Baatar

 

Domenica 28 agosto sarà una giornata storica per la Mongolia che festeggerà l’ordinazione sacerdotale di padre Joseph Enkh-Bataar, il primo sacerdote originario del Paese. In occasione della sua ordinazione diaconale, alla fine del 2014, Mondo e Missione aveva chiesto a Ernesto Viscardi, missionario della Consolata in Mongolia di raccontare questa piccola Chiesa e la storia della vocazione di padre Joseph. Riproponiamo qui sotto quest’articolo

 

“Il Paese dal cielo blu”, “La patria di Gengis Khan”, “La terra delle steppe infinite”… sono molti i nomi usati per definire la Mongolia, nazione balzata alla ribalta dei mercati economici per le immense risorse minerarie scoperte negli ultimi anni nel deserto del Gobi, un deserto già famoso per la presenza dei resti di diverse specie di dinosauri. Le miniere – settore economico in grande espansione (tra l’8 e il 10% la crescita prevista per il 2015) – fanno di questo Paese di tre milioni di abitanti, grande cinque volte l’Italia, un meta appetibile per compagnie e investitori privati.

Un contesto in rapido cambiamento, che ha da poco visto anche una “prima volta” su un fronte del tutto diverso, quello della fede cattolica. Lo scorso dicembre, infatti, la piccola Chiesa della Mongolia ha festeggiato l’ordinazione del suo primo diacono: il giovane Joseph Enkh-Baatar.

La recente storia missionaria cattolica nella nazione inizia nel 1992 quando, crollato il muro di Berlino, la Mongolia si libera da 70 anni di regime comunista e a piccoli passi si avvia verso una nuova esperienza democratica. È in quegli anni che l’allora presidente, nella sua visita in Vaticano, invitava il Papa a mandare missionari in Mongolia per attività culturali e di assistenza sociale. I primi tre a mettere piede nelle steppe mongole, nel 1992, sono l’attuale vescovo monsignor Wenceslao Padilla, filippino di origine, e altri due suoi compagni appartenenti alla congregazione del Cuore immacolato di Maria (detti anche Scheut).

Questi primi missionari calcano le orme dei missionari nestoriani, primi annunciatori del Vangelo nell’Asia centrale (V e VI secolo), e dei primi missionari-ambasciatori cattolici del XIII secolo (Giovanni del Pian del Carpine e Guglielmo di Rubruck).

Monsignor Wenceslao, attuale prefetto apostolico, ama ripetere che la moderna missione cattolica in Mongolia è iniziata da “ground zero”, cioè dal niente. Negli anni del suo arrivo le uniche presenze cattoliche erano i membri delle ambasciate straniere presenti nella capitale, Ulaan Baatar .

L’inizio è tutto all’insegna del sociale, con il soccorso ai “ragazzi dei tombini” e le mense dei poveri, a cui con il tempo si aggiungono scuole primarie e secondarie, asili, internati per le studenti provenienti dalla campagna, progetti di sviluppo comunitari, centri culturali, la Caritas con le sue numerose iniziative…

Il popolo mongolo, di tradizione sciamano-buddhista, comincia però a sentir parlare di Gesù, del Vangelo, della Bibbia, anche sulla spinta della diffusa presenza di Chiese protestanti. Pian piano si consolidano le prime comunità cattoliche, che oggi contano un migliaio di battezzati e sei parrocchie: quattro a Ulaan Baatar e altre due nelle città di Darkhan, al Nord, e Arvaiheer, nel Centro-sud del Paese.

Frutto di questa breve storia della Chiesa in Mongolia è il nuovo diacono Joseph Enkh. La storia della vocazione di Enkhee – come lo chiamano gli amici – è semplice e allo stesso tempo interessante. Il ragazzo nasce da una famiglia come tante, e si avvicina alla Chiesa grazie alla sorella Oyu, cattolica di prima generazione. Dopo aver frequentato le lezioni di catechismo, riceve il Battesimo (e il nome cristiano di Joseph) e da quel giorno si lascia coinvolgere nelle attività della comunità. Enkhee è catechista dei ragazzi, si impegna nel gruppo giovanile ma – come ha raccontato lui stesso in una sua testimonianza – questo non gli basta. Al Signore vuole dare qualche cosa di più.

Intanto frequenta l’Università internazionale di Lingue e continua il suo percorso di discernimento. Terminati gli studi universitari, chiede di entrare in seminario. Purtroppo la nostra Chiesa, vista l’esiguità dei suoi membri, non ne ha ancora uno. Così, il vescovo decide di mandare Enkh al seminario di Daejon, in Korea. La scelta è dettata anche dai legami di collaborazione fra le due Chiese, con la presenza in Mongolia di tre Fidei donum di quella diocesi.

Enkhee frequenta i corsi al seminario, dove fra l’altro condivide la preparazione con alcuni giovani stranieri dall’Africa e da altre nazioni asiatiche. In una mia visita a Daejon, incontrando i responsabili della formazione, gli elogi per Enkhee sono numerosi, per il suo impegno e la sua serietà.

 

In tutte le nostre parrocchie e nelle comunità religiose la preparazione a questa ordinazione diaconale è stata grande e attenta, con novene e veglie di preghiera. D’altra parte l’evento era sentito da tutti come molto importante. Una delegazione di fedeli e di membri della famiglia del giovane ha accompagnato il vescovo in Corea per assistere alla celebrazione. Finalmente, lo scorso 11 dicembre, Joseph Enkh è stato ordinato diacono. È per lui il primo passo verso il sacerdozio.

Per la nostra piccola Chiesa si tratta di un evento storico, che gratifica l’impegno di tanti missionari che hanno lavorato o ancora lavorano in questa Chiesa. Ma la presenza di un futuro sacerdote autoctono del Paese certamente interrogherà gli stili, le attività, i contenuti di un’azione missionaria fino ad ora costituita da presenze, religiose e laiche, straniere.

La speranza è che Enkhee, insieme ai numerosi laici mongoli che lavorano nella nostra Chiesa, possa cominciare a dare a questa presenza di Chiesa un volto e un sapore più autenticamente locale, in quel processo di inculturazione ormai necessario dopo 23 anni di tutela missionaria. Ma questa nuova presenza pone anche delle responsabilità sulle spalle della comunità locale, che dovrà accompagnare, collaborare e sostenere il proprio clero. Non sarà cosa facile per un contesto che è stato abituato a ricevere molto.

Qualche passo dietro al nostro Enkhee ci sono già due altri seminaristi che studiano a Daejon: segni di grande speranza per la nostra Chiesa. Ci auguriamo che il Signore chiami altri giovani a lavorare nella sua vigna, qui in Mongolia.

 

 

Un “team” di preti e suore
in frontiera

Dodici anni fa i missionari della Consolata (che erano già presenti in Corea del Sud da più di 15 anni) decidono di ampliare la presenza in Asia con l’apertura della nuova missione in Mongolia, dove i primi religiosi e religiose dell’Istituto arrivano nell’estate del 2003. Questa missione ha una sua peculiarità non solo perché sceglie una nazione sconosciuta ai più, in una situazione specificamente ad gentes, ma anche perché pensata, progettata e attuata in comunione dai due Istituti della Consolata.

L’inserimento non è tra i più facili: la lingua richiede un lungo periodo di studio, i climi invernali sono da temperature siberiane, l’attività pastorale è tutta da inventare, come lo sono i sussidi stampati che vanno tutti composti e tradotti.

Con il tempo, e dopo un’attenta analisi, la presenza del “team Consolata” si orienta verso alcune scelte di fondo che riassumiamo così: annuncio del Vangelo ad gentes, nel servizio qualificato alla Chiesa locale, dentro un comune progetto di padri e suore, in uno stile che vuol essere semplice e vicino alla gente, aperti al dialogo con altre religioni.

Tutto questo si è poi concretizzato in una nuova parrocchia ad Arvaiheer (430 km da Ulaan Baatar ), con un progetto di sviluppo per le famiglie e un piccolo asilo, il servizio alla Prefettura apostolica (Commissioni pastorali, Vicario generale e servizi ad altre parrocchie e comunità religiose) e la prospettiva – speriamo a breve – dell’apertura di un nuovo centro a Nord della capitale, in un quartiere popolare chiamato Chingiltei.

Insomma, ci sentiamo parte di una giovanissima Chiesa (di soli 23 anni di età) e cerchiamo di fare del nostro meglio perché questa Chiesa cresca e abbia sempre più un “volto mongolo” e il sapore della Mongolia. (e.v.)