Aborigeni, quei popoli dietro le sbarre

Aborigeni, quei popoli dietro le sbarre

La denuncia di un rapporto dell’Onu: «Mentre le popolazioni indigene sono solo il 3 per cento della popolazione australiana, i carcerati di questa origine sono il 27 per cento del totale»

 

La percentuale di incarcerazioni tra le popolazioni indigene australiane è ormai “sorprendente” e un incentivo alla segregazione. Di conseguenza occorrono provvedimenti concreti e – soprattutto – coerenti. A segnalarlo il 10 aprile, alla fine di una visita ufficiale in Australia, è stata Victoria Tauli-Corpuz, inviato speciale delle Nazioni Unite per le popolazioni indigene. «Le politiche governative hanno mancato di efficacia per quanto riguarda la salute, l’istruzione e l’occupazione e hanno portato a un numero elevato di incarcerazioni, oltre che a un gran numero di minori tolti alle famiglie nelle comunità aborigene e dello Stretto di Torres», ha sottolineato Tauli-Corpus.

La situazione presenta aspetti aberranti. «Mentre gli aborigeni e gli abitanti dello Stretto di Torres sono solo il 3 per cento della popolazione australiana, i carcerati di questa origine sono il 27 per cento del totale e i bambini aborigeni hanno probabilità sette volte superiori a quelli di altra origine di essere coinvolti nel sistema di protezione per i minorenni (ovvero di separazione dalle famiglie e sovente detenzione) oppure di finire vittima di violenza o emarginazione», ha ricordato l’inviato Onu.

Il 29 novembre 2016, anticipando il 30° anniversario dello storico incontro di san Giovanni Paolo II con gli aborigeni e gli isolani dello Stretto di Torres, papa Francesco aveva espresso la sua “spirituale vicinanza” e la sua “profonda stima” per un “antico patrimonio culturale” che manifesta “genialità e dignità”. Riecheggiando le parole di Giovani Paolo II, nel messaggio inviato dal nunzio apostolico mons. Adolfo Tito Yllana a John Lochowiak, leader aborigeno delle Isole dello Stretto di Torres, il Papa, aveva sottolineato come la cultura degli aborigeni australiani «non debba essere lasciata scomparire».

Da tempo, rapporti indipendenti e governativi – ultimo quello ufficiale dello scorso novembre, il più completo mai pubblicato finora – segnalano il sostanziale fallimento delle politiche di sviluppo e benessere delle comunità indigene. Nonostante il processo di integrazione legale, il riconoscimento dei diritti sulle terre ancestrali e la tutela della identità, tra le sparse comunità originarie si registrano livelli preoccupanti di violenza, abusi, patologie e psicosi.
Persino in occasione delle Olimpiadi di Sydney 2000 – che le autorità avevano voluto fossero una vetrina per l’opera di risarcimento e di integrazione dei “popoli del Sogno” – a pochi erano sfuggiti i dati drammatici che confutavano l’ottimismo ufficiale: la durata della vita media inferiore mediamente di vent’anni rispetto a quella dei non aborigeni, la possibilità superiore di 17 volte di essere arrestati e di 16 volte superiore di morire sotto custodia. I rappresentanti dei servizi medico-sanitari avevano condannato come “ampiamente inadeguato” l’approccio governativo al tasso elevato di suicidi tra gli aborigeni e chiesto all’allora premier John Howard di prendere sul serio le condizioni dei gruppi minoritari.

Non a caso la rappresentante delle Nazioni Unite ha ora espresso scetticismo sulla possibilità che il governo di Canberra possa raggiungere gli obiettivi fissati dai propri piani ufficiali e ha chiesto un approccio onnicomprensivo, con obiettivi specifici per la riduzione dei tassi di incarcerazione, la sottrazione dei minori alle comunità e la violenza contro le donne.