LA PACE difficile

Nell’isola di Mindanao sono settimane cruciali per la creazione dell’ente autonomo Bangsamoro. Parla il cardinale di Cotabato, sostenitore dell’accordo con gli islamici per porre fine alla guerra

Passaporto, prego!». All’aeroporto di Cotabato City un poliziotto gentile si accosta ai passeggeri stranieri in arrivo. Nessun commento, solo la scannerizzazione del documento e «benvenuto signore!». Poco dopo, all’ingresso in città, una grande scritta ti accoglie nella Regione Autonoma di Mindanao Musulmano (Armm, Autonomous Region in Muslim Mindanao). In realtà la città di Cotabato non ha mai votato per l’inclusione nella Regione Autonoma. Tuttavia ne è sede degli uffici centrali e capoluogo della provincia di Maguindanao, che vi è invece in gran parte inclusa.

«Col referendum a maggio anche Cotabato City sceglierà il nuovo statuto. La popolazione musulmana della città ormai è maggioritaria a causa del forte afflusso dalle zone di conflitto. Non solo, ma i leader musulmani faranno una campagna porta a porta perché la città passi sotto il loro controllo». A parlare è l’arcivescovo cattolico Orlando Quevedo, che a gennaio 2014 papa Francesco elevò a sorpresa alla dignità cardinalizia, primo porporato originario di Mindanao.

«È a causa del suo impegno per la pace – gli chiedo – che è arrivata questa prova di fiducia e nuova responsabilità?». «Non ne ho idea – risponde -: nessuno mi ha interpellato, l’ho saputo dai messaggi di congratulazioni sul telefonino». In realtà il cardinale Quevedo è uno dei più tenaci sostenitori di un accordo di pace con la minoranza musulmana del Sud delle Filippine. Rispetto ad altri, che pure vogliono una soluzione amichevole, è anche fiducioso che gradualmente la convivenza tra cristiani e musulmani sarà possibile e fruttuosa nonostante qualche ineliminabile screzio. Le Filippine sarebbero oggi un Paese musulmano se nel 1565 gli spagnoli non avessero preso il controllo dell’arcipelago. Con quella mossa la presenza islamica è rimasta confinata al Sud, nell’arcipelago di Sulu, il cui antico sultanato risulta oggi spartito tra Malesia, Indonesia e soprattutto Filippine, e nella parte centrale di Mindanao, nelle attuali città di Cotabato e Marawi, sulle coste e nelle campagne circostanti; con il resto dell’isola occupato da tribù indigene estranee all’islam o addirittura in gran parte disabitato.

Con l’emigrazione contadina cristiana dal Centro-nord verso le terre incolte e facilmente disponibili della grande isola nel corso del Ventesimo secolo e con la decolonizzazione spagnola prima (1898) e americana poi (1946), il conflitto islamo-cristiano diventa un problema interno: quello di una minoranza che non si sente filippina ma “moro” (dal termine usato dagli spagnoli per definire i musulmani del Sud).

Nel 1968 il giovane docente Nur Misuari fonda a Manila il Fronte Nazionale di Liberazione Moro (Moro National Liberation Front, Mnlf) di matrice laica e con base nell’arcipelago di Sulu. Nel 1977 una costola più “religiosa” e rappresentativa di Mindanao centrale si stacca sotto la leadership di Hashim Salamat per dare origine al Fronte Islamico di Liberazione Moro (Moro Islamic Liberation Front, Milf). Nel 1996 il governo di Manila raggiunge un accordo di pace con il gruppo di Misuari, ma non con Hashim Salamat. Questi ufficialmente persiste nella richiesta di indipendenza per Mindanao; in realtà vuole trattare a parte e punta alla leadership politica sul variegato mosaico musulmano filippino. Hashim Salamat muore nel 2003, ma il suo gruppo è a un passo dall’obiettivo. Con la mediazione della Malesia il Milf e il governo filippino hanno raggiunto un anno fa il primo accordo per una Legge Fondamentale per il Bangsamoro (Bangsamoro Basic Law, Bbl). La parola “Bangsa” di per sé significa più di “territorio”; significa nazione o addirittura Stato.

«No, non si tratta di indipendenza – precisa in fretta il cardinale Quevedo -. Qualsiasi cosa del genere andrebbe contro la Costituzione filippina e sarebbe immediatamente bocciata dalla Corte Suprema. Si tratta piuttosto di una soluzione vincente per entrambe le parti in causa: una vasta autonomia all’interno dell’unico Stato nazionale».

La prevista autonomia dovrebbe essere approvata con voto finale dal Parlamento in queste settimane e sottoposta a referendum nelle aree interessate a maggio. Il condizionale è d’obbligo a causa della volatilità dell’area e della fragilità dei rapporti tra le forze in campo. Ma la scadenza delle elezioni nazionali a maggio 2016 incombe. In quella data anche il nuovo parlamento Bangsamoro deve essere eletto al termine della fase transitoria successiva al dissolvimento formale dell’attuale Regione Autonoma (Armm), a maggio di quest’anno. L’area Bangsamoro sarà leggermente più vasta dell’attuale Regione Autonoma, che comprende solo cinque province e due città. Ci sarà battaglia (solo politica si spera) per l’adesione della città di Cotabato – come detto -, ma anche – e lì forse sarà più difficile – di Isabela, sull’isola di Basilan; e poi aree a maggioranza musulmana contigue all’attuale Regione Autonoma.

«Ho sempre invitato gli imprenditori cristiani di Cotabato a non isolarsi e a non andarsene, ma a stabilire delle partnership con i colleghi musulmani», dice ancora l’arcivescovo Quevedo. E aggiunge che, come “capitale” del quasi-Stato Bangsamoro, Cotabato tornerà ad essere una città di rilievo addirittura internazionale. Fa notare anche che il Parlamento della Regione Autonoma, prossima alla sua chiusura, non era realmente democratico, ma “feudale”; rappresentava personalità, potentati ed interessi musulmani anziché la popolazione, composta peraltro anche dalle minoranze cristiane e tribali indigene.

Sono proprio gli indigeni, gli abitanti originari di Mindanao di tradizione e cultura preislamica, a essere quasi completamente esclusi dalle attuali trattative. «Sono i veri poveri nell’anno che la Chiesa filippina ha dedicato ai poveri», mi dice l’operatore Reynaldo Saligan, segretario di un’associazione indigena e di un Forum per la pace a Mindanao, impegnato proprio a promuovere gli interessi delle popolazioni indigene, pacifiche e disarmate all’interno della nuova entità politica che si va costruendo.

Ma in un contesto internazionale così difficile per i rapporti con i musulmani – chiedo ancora al cardinale Quevedo – si riuscirà veramente a completare il progetto Bangsamoro? «Di rischi ce ne sono ancora, e molto seri», ammette il porporato. Anzitutto l’animosità tra gli stessi gruppi musulmani, soprattutto tra Milf e Mnlf. Il leader storico di quest’ultimo, Nur Misuari, si sente escluso dal nuovo assetto, ma Quevedo assicura che i suoi luogotenenti a Mindanao centrale accetteranno la soluzione Bangsamoro con capitale Cotabato. Poi c’è il rischio che gruppi e lobby cristiane impugnino l’accordo presso la Corte Suprema. Secondo il vescovo ausiliare di Cotabato, monsignor Colin Bagaforo, questo avverrà certamente, per cui il governo sta facendo di tutto perché nelle disposizioni legislative che istituiranno la regione non ci sia nulla di anticostituzionale. Alcuni gruppi armati all’interno del Fronte Islamico di Liberazione Moro, hanno poi già dichiarato di respingere ogni ipotesi di accordo col governo. Insistono sulla completa indipendenza e hanno già costituito il gruppo dei Combattenti Islamici per la Libertà Bangsamoro (Bangsamoro Islamic Freedom Fighters, Biff). Quevedo tende a relativizzarne la forza e il numero, ma il rischio è che gradualmente vi convergano tutti quanti col processo di pace non si adegueranno alla vita civile o perderanno status e stipendio di combattenti.

Che ne sarà infatti dei 18 mila o più militari musulmani? Solo una parte saranno assorbiti, come previsto, nel locale corpo di polizia. Per gli altri vi sarà solo un risarcimento in denaro destinato a dissolversi in fretta. La leadership cristiana a Mindanao rimane generalmente scettica sul nuovo accordo. Benché quote prestabilite siano riservate a loro, agli indigeni tribali e agli stessi piccoli e più marginali gruppi musulmani nel nuovo Parlamento Bangsamoro, molti temono una graduale presa di controllo da parte dei raggruppamenti islamici più forti, soprattutto attraverso il sistema di selezione e promozione ai livelli più alti dell’amministrazione pubblica. Molti temono anche le armi che saranno in mano alla polizia Bangsamoro deputata, in mancanza di un esercito di difesa, a difendere i confini della Regione. «Ci sono poi due norme nell’attuale Legge Fondamentale che gradirei vedere modificate – dice lo stesso cardinale Quevedo -. La prima è quella del 10% della popolazione di villaggio sufficiente a chiedere un referendum di ammissione al Bangsamoro. Se non si pone una scadenza temporale a questa possibilità, si rischia una colonizzazione progressiva dei villaggi da parte della comunità musulmana con inevitabili conflitti. La seconda è il cosiddetto potere esclusivo sull’istruzione pubblica. Bisogna evitare che chi verrà fra qualche decennio ne approfitti per islamizzare totalmente la scuola a danno delle minoranze».

Un tragico scontro tra polizia filippina – alla caccia di due pericolosi terroristi internazionali – e armati islamici nell’area musulmana di Mamasapano lo scorso 25 gennaio ha lasciato sul terreno 44 vittime governative e una ventina musulmane. Le responsabilità rimangono da chiarire, ma i leader del Milf si sono affrettati a dire che l’incidente non è stato intenzionale e che vogliono completare l’accordo di pace. Con esso infatti l’influenza musulmana ne guadagna: affari, cultura, religione, potere politico si espandono in tempo di pace. «È vero, i leader musulmani vogliono la fine delle ostilità – è l’ultimo commento del cardinale Quevedo -: hanno capito che ci guadagnano. Dalla morte di Salamat, nel 2003, non hanno più sviluppato alcuna seria offensiva contro il governo». La pace sarà un cammino molto graduale. Di incidenti e vittime ce ne saranno ancora. Ma è lecito credere che saranno meno di quanti ne reclamerebbe la guerra aperta. E che in un angolo sperduto di mondo oggi si firmi una pace, per quanto precaria, con una comunità musulmana non è notizia da poco. MM