Mons. Bugeja: «Così resistiamo qui a Tripoli»

Mons. Bugeja: «Così resistiamo qui a Tripoli»

In Libia la Chiesa cattolica è ridotta a una piccola comunità. Parla il successore del vescovo Giovani Martinelli, appena arrivato a Tripoli.

«Siamo in tre: Io e due frati francescani. Ci sono anche le suore di Madre Teresa, otto suore in due comunità  a poca distanza da dove sta la chiesa, che operano in due istituzioni per persone con disabilità». A parlare è monsignor George Bugeja, 53 anni, francescano dei Frati minori designato da Papa Francesco come coadiutore del vicariato apostolico della capitale libica. È arrivato a Tripoli il 22 ottobre e si prepara a succedere a monsignor Giovanni Innocenzo Martinelli, il vescovo francescano di origine veneta che ha retto per trent’anni il vicariato apostolico di Tripoli, uno dei luoghi più difficili per la Chiesa Cattolica. Il 24 ottobre monsignor Martinelli è partito per l’Italia «per qualche tempo di vacanza e di cura per motivi di salute» riferisce lo stesso Bugeja.

Alla vigilia della partenza per la Libia ci aveva scritto: «Papa Francesco mi ha dato questo incarico di servire la Chiesa in Libia. Ho accettato e ringrazio il Santo Padre per la fiducia cha ha in me. Parto per Tripoli per essere d’aiuto a monsignor Martinelli, che è molto malato. Al momento vedo il mio ruolo come coadiutore come un tempo di noviziato, cioè un tempo di preparazione durante il quale vedere, ascoltare, imparare. Sono certo che il Signore mi guiderà e avrò l’aiuto necessario dalla comunità cristiana presente».

La comunità cristiana a Tripoli, però, è ridotta ai minimi termini, in un clima sempre più teso. È di ieri la notizia dell’ennesima profanazione del cimitero cattolico italiano «Hammangi» nella capitale libica, in un quadro che nelle ultime settimane si è fatto sempre più teso e complicato dopo il “rifiuto” del piano di accordo politico proposto dalle Nazioni Unite sia da parte del parlamento di Tripoli controllato dalle milizie filo-islamiche di Fajr Libya che dal  parlamento di Tobruk sostenuto dalla comunità internazionale.

Dall’ottobre del 2011, il mese in cui è stato ucciso Gheddafi, sono iniziati attacchi contro le minoranze religiose, proseguiti anche negli anni successivi fino al brutale assassinio da parte dei miliziani dello Stato Islamico di 21 cristiani copti nel febbraio del 2015. In un clima di totale instabilità, le autorità, invece di prendere misure per combattere questi atti di violenza, hanno chiesto alle comunità religiose di lasciare il Paese. Nella Cirenaica – riferisce il rapporto 2014 dell’associazione Aiuto alla Chiesa che soffre – tra il 2012 e il 2013 molte congregazioni sono state costrette ad abbandonare i propri conventi, anche dopo, come accaduto in un caso, quasi un secolo di presenza ininterrotta.

«In Libia sono rimaste soltanto le suore di Madre Teresa» afferma padre Bugeja. «Le altre comunità religiose hanno tutte lasciato il paese». Per quanto riguarda i religiosi, oltre al vescovo sono rimasti «tre frati minori». Nel 2010 i cattolici erano stimati nell’Annuario pontificio in 156mila. Tre anni dopo, nel 2013, erano diventati 13mila, la maggior parte dei quali filippini presenti nel Paese per lavoro. Negli ultimi due anni l’avanzata degli estremisti islamici ha colpito anche loro. «Oggi c’è una comunità filippina molto ridotta», conferma padre Bugeja  «e qualche comunità proveniente da altri Paesi africani». Secondo il Cir, il Centro italiano per i rifugiati, l’unica organizzazione non governativa internazionale ancora presente in Libia, dei duecentomila migranti in attesa di partire dalla Libia verso l’Europa almeno un terzo sono cristiani. «È però difficile individuarli perché non vogliono uscire allo scoperto» afferma Gino Barsella, coordinatore del Cir per il Nordafrica. «Provengono da Paesi come l’Eritrea, il Ghana e la Nigeria. Alcuni sono in luoghi controllati dai trafficanti, anche nella periferia di Tripoli e in questo caso anche noi del Cir non riusciamo a raggiungerli. Altri si appoggiano a connazionali che sono già in Libia.

Da Tripoli monsignor Bugeja racconta le sue prime impressioni: «Il giorno dopo il mio arrivo, Venerdì che qui è il giorno di riposo, come la nostra Domenica, nella Chiesa di San Francesco si celebra la liturgia con la Messa di Domenica – racconta  -. La prima messa alle 9.00 è in inglese ed é per la comunità filippina mentre quella del 10:30 sempre in inglese, è per la comunità africana. Per le due messe la chiesa era piena. Un altra Messa si celebra alla sera. Durante la Messa delle 10:30 sono stato presentato alla Comunità e in presenza del Vescovo monsignor Giovanni Innocenzo Martinelli è stata letta e mostrata la Bolla con la quale  Papa Francesco, mi ha nominato vescovo coadiutore del Vicariato Apostolico».

La successione nel vicariato di Tripoli non sarà un passaggio facile per la Chiesa Cattolica: Monsignor Martinelli in Libia è nato: a El Khadra, da famiglia veneta originaria di Camacici, frazione di San Giovanni Lupatoto (Verona). Dopo gli studi sacerdotali in Italia, è rientrato a Tripoli da prete nel 1971, immediatamente dopo “la “Rivoluzione Vede” del Colonnello Muhammar Gheddafi. In quegli anni difficili, prima della nomina a vescovo nel 1985, è stato testimone della cacciata degli italiani e ha vissuto il sequestro della Cattedrale di Tripoli trasformata in moschea. Negli ultimi tempi ha vissuto la rivoluzione del 2011, la caduta di Gheddafi, la diffusione delle frange islamiche più integraliste. Non ha mai messo di invocare il dialogo e di chiedere di pregare per la pace in Libia. Anche dopo la brutale uccisione dei 21 cristiani copti ha chiesto alla comunità internazionale di non rinunciare a tessere trame di dialogo con «un Paese molto diviso».

George Bugeja è nato il 1° luglio 1962 a Xaghara, nella Diocesi di Gozo. È stato ordinato sacerdote 29 anni fa. Dopo un primo anno in Libia è stato destinato in Canada, è stato parroco a Malta e superiore di diverse comunità, ha insegnato in seminario e negli ultimi cinque anni è stato membro della Congregazione per l’Evangelizzazione del Popoli (Propaganda fide) in Vaticano.

Gli chiediamo come si sente sapendo di dover lavorare in un contesto così difficile, se ha paura. «Penso che un po’ di paura l’avrò» risponde. «Il Signore provvederà».